La rotta d’Italia. Le prossime elezioni possono essere un’occasione di cambiamento. I margini sono stretti, le difficoltà molte e, per chi è legato alla “politica dal basso”, sarebbe sbagliato affrontare questa sfida appiattiti sulla realpolitik da un lato, o chiusi in una logica di autoreferenzialità dall’altro
Bisogna guardare al merito dei problemi e alle strade che si possono percorrere per cambiare. La drammaticità della crisi italiana ed europea (nel 2013 in gran parte dei paesi europei, tra cui l’Italia, cade il reddito, aumenta il debito, crescono disoccupazione e povertà) richiama tutti a misurarsi con un programma di cambiamento possibile. Queste elezioni sono il varco possibile di un cambio di rotta. Si potrebbe essere pessimisti: in Olanda, dopo la speranza di uno spostamento a sinistra, c’è una “grande coalizione” tra liberali e socialdemocratici, e lo stesso potrebbe succedere in Germania a settembre; in Francia, Hollande sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. L’Italia potrebbe non sfuggire alla medesima sorte, consegnando l’Europa a una stagnazione politica e a una depressione economica che farebbe avvitare la crisi, anche quella sociale e politica, su se stessa. Eppure la partita è ancora aperta: se il centro-sinistra vincesse nettamente alla Camera e anche al Senato (e se Sel, la sinistra del-centro sinistra, ottenesse un buon risultato), conquistandosi l’autosufficienza politica e numerica, allora sarebbe possibile – con tutte le difficoltà e strettoie immaginabili – cambiare strada rispetto al passato. E sarebbe importante, allora, che anche chi non si riconosce in quella coalizione vedesse in questo risultato una discontinuità importante, da valutare senza preclusioni.
Naturalmente c’è il merito delle scelte che anche un centro-sinistra vincente dovrebbe affrontare e da cui non potrebbe sfuggire: il contesto e i vincoli europei, le politiche restrittive e di bilancio fin qui imperanti, la questione del debito pubblico. Difficoltà che non impedirebbero tuttavia di sperimentare politiche diverse, come quelle che propongono i socialdemocratici tedeschi (allentamento dell’austerità) o il sindacato europeo (politiche espansive e di intervento pubblico). Si aprirebbe uno spazio politico di iniziativa niente affatto scontato. Nulla di tutto accadrebbe se vincesse il centro-destra o se dal voto uscisse uno stallo, con il centro-sinistra costretto a venire a patti con Monti e i centristi. E per questo non è utile continuare a evocare (quasi a spingerlo) il Pd nelle braccia di Monti, sperando di conquistare qualche voto di opposizione in più. La radicalità politica e la forza dei movimenti devono essere usate contro le derive moderate di una parte della coalizione e per mettere al centro la via d’uscita a sinistra della crisi, sostituendo alla “Agenda Monti”, un’agenda del lavoro, dei diritti, dell’ambiente.
Sappiamo bene che la politica di governo si muove su un piano diverso dalle campagne dei movimenti. Anche un governo nelle migliori condizioni possibili – con un centro-sinistra autosufficiente – sarebbe costretto a molte mediazioni (anche al ribasso) rispetto alle politiche per il cambiamento per cui ci battiamo. Per questo occorre tenere alta una mobilitazione sociale e sindacale, capace di spingere le politiche verso la nostra Agenda del cambiamento che ha come priorità una grande politica per il lavoro e la riconversione ecologica dell’economia; la redistribuzione di reddito e ricchezza con un fisco che colpisca profitti e patrimoni, e non il lavoro; la riduzione del ruolo della finanza; la difesa del welfare e dei diritti.
Il ruolo della società civile e dei movimenti diventa allora fondamentale. La crisi del sistema politico ha impedito una riforma del sistema della rappresentanza. Per riequilibrare il rapporto tra partiti e società è necessario un forte allargamento della partecipazione. Nei mesi scorsi le primarie del centro-sinistra sono state un’importante occasione di partecipazione di massa, e tuttavia ci hanno ricordato i limiti dei meccanismi della rappresentanza: nella selezione dei candidati le logiche di organizzazione del consenso, gli apparati di partito e i comitati elettorali contano ancora più dei contenuti. Figure della società civile come Giuliana Sgrena o il coordinatore della Rete Disarmo Francesco Vignarca sono rimaste escluse. Lo stesso è avvenuto in altre liste.
Eppure – anche in questo contesto negativo – sta succedendo un fatto nuovo: un numero consistente (20-30) di esponenti di associazioni, sindacati e di movimenti (nel Pd, in Sel, in Rivoluzione Civile, ma anche nella Lista Monti e nel Movimento 5 Stelle) può realisticamente entrare in Parlamento. Naturalmente i rappresentanti dei movimenti eventualmente eletti – e io mi candido come indipendente per Sel – non devono essere “fiori all’occhiello” di politiche sbagliate, e ci sono valori non negoziabili come la pace, i diritti umani, la democrazia. Ma, dentro il Parlamento, non ci si può accontentare di identità consolatorie e di una semplice testimonianza. La partita si gioca sulle possibilità di cambiamento concreto.
Nel mio libro Come fare politica senza entrare in un partito (che Paolo Cacciari ha citato sul manifesto del 16 gennaio), alcuni anni fa scrivevo che il problema non è se giocare il derby tra partiti e società civile, tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta – togliendo qualcosa ai partiti per darlo ai movimenti e facendo qualche referendum in più –, ma come ampliare lo spazio pubblico della politica, della democrazia e della partecipazione, con una pratica della rappresentanza non subalterna al dominio dei mercati. Sicuramente un compito di coloro che, venendo dai movimenti, approderanno in Parlamento sarà quello di portare avanti una “legge sulla partecipazione politica” che raccolga queste sollecitazioni.
Anche per questo, come sostiene l’articolo che ha aperto il dibattito di Sbilanciamoci.info su La Rotta d’Italia, bisogna “vincere per cambiare strada”, sconfiggere il centro-destra e Monti, e mettere il centro-sinistra e gli esponenti dei movimenti e della società civile che andranno in Parlamento nelle condizioni di fare quella che Guglielmo Ragozzino sul manifesto del 12 gennaio ha definito “la buona politica”. Partiamo dai nostri contenuti: uscire dalla crisi, un’Europa democratica, al primo posto il lavoro e l’uguaglianza. Non si tratta semplicemente di dare più voce ai movimenti nel nuovo Parlamento, o di inseguire la rappresentazione mediatica della politica. Si tratta di introdurre alcuni cambiamenti possibili, a partire dalle misure proposte in questo dibattito su “Le cose da fare nei primi cento giorni”. Il “cambio di rotta” necessario deve trovare la via di interventi concreti: la cittadinanza ai figli degli immigrati, un programma di “piccole opere”, la stabilizzazione dei lavoratori precari, il ritorno delle tutele sindacali, misure per la sostenibilità ambientale, il taglio degli F35. Ce lo ha insegnato in questi anni il lavoro di campagne come Sbilanciamoci!.
Si può vincere alle elezioni e si può cambiare rotta se guardiamo alla politica in questo modo. Non uno scontro tra identità irriducibili, alimentato dalle polemiche di schieramento, ma la costruzione di una cultura comune del cambiamento, anche tra chi a sinistra ha preso posizioni diverse. L’impegno è di “vincere per cambiare”, e non è molto utile preconizzare una paventata continuità che assume le sembianze della “profezia che si autorealizza”. La scommessa per tutti noi è costruire un blocco sociale post-liberista e una politica che sappia sostituirsi all’egemonia che il liberismo in salsa italiana ha avuto per vent’anni. Sta a tutti noi riuscirci.