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L’Italia nella rotta d’Europa

La rotta d’Italia. È diffusa l’opinione che la politica sia una serie di compromessi accettati per arricchirsi in fretta. Per vincere tale pregiudizio occorrono regole sicure, parole chiare, azioni trasparenti e un rapporto stretto con la società

Disincanto, sfiducia nei confronti del mondo della politica (non solo partitica) e disorientamento: sono i sentimenti che coinvolgono una parte significativa degli elettori. La novità che ci consegnano gli ultimi anni di egemonia berlusconiana, di sgretolamento progressivo della sinistra e di frammentazione dei conflitti e dei movimenti sociali è costituita dall’ampliamento del numero di elettori che è fortemente tentato dall’astensione alle prossime elezioni politiche.

Tra questi ci sono, come forse mai è avvenuto prima, moltissimi giovani, nati o cresciuti nell’era berlusconiana, ma ci sono anche molte donne e molti uomini che hanno alle spalle un intenso impegno politico e sociale, una lunga storia di movimento e di battaglie civili. È questa parte dell’elettorato, potenzialmente astensionista, che nulla ha a che vedere con quell’area di elettori facilmente manipolabile dalle diverse forme di populismo qualunquista, che deve preoccuparci di più e che sollecita qualche riflessione, nell’ambito della discussione su “La rotta d’Italia” aperta da Sbilanciamoci.info due giorni fa. Perché questo, più di altri, è un sintomo significativo dei gravi rischi che sta correndo la nostra democrazia.

La delegittimazione della politica tout court non è “la soluzione” dei mali del nostro tempo, come purtroppo qualche giornale malintenzionato, qualche comico in aspettativa e qualche “tecnico” abile sembrano riuscire a far credere anche ad una buona parte di elettorato intelligente, colto e dotato di senso critico. Al contrario, ciò che serve è una nuova rilegittimazione della Politica grazie al recupero del suo significato e delle sue finalità originarie – la politica come gestione della cosa pubblica, del bene comune, diremmo oggi – e alla condivisione di nuove regole capaci di curarne le patologie più insidiose.

Il lavoro politico, tanto al Parlamento romano, quanto nelle istituzioni rappresentative locali, è molto malvisto, spesso disprezzato, quanto meno osservato con diffidenza. Lo si ritiene una scorciatoia per arrivare in fretta all’agio economico e a una vita privilegiata. Spesso non è così e vi si dedicano persone altruiste e desiderose di realizzare il bene pubblico. Recenti episodi hanno però rafforzato l’opinione diffusa sulla scarsa qualità umana e sui pochi meriti di chi raggiunge i posti più ambiti; e taluno è convinto che sono proprio l’ambizione egoistica e l’arrivismo a essere premiati. La pessima fama attuale della politica si rovescia talvolta nel suo opposto e diventa, da pura ricerca di rimedi e correttivi, un male in sé ed è spesso funesta per la vita della democrazia. Dobbiamo ribellarci a un cattivo uso della critica, ma senza cadere nell’orgoglioso atteggiamento di chi si defila e – per non rischiare il contagio, o il sospetto di un possibile contagio – resta ai margini della vita collettiva.

Occorrono regole precise. Servono per aiutare chi, dopo un lungo impegno civile e sociale nel mondo dei movimenti, si rende disponibile a passare un periodo nelle istituzioni rappresentative, che, prima di impegnarsi, ci chiederà consiglio e discuterà le proposte. Sì, perché, detto per inciso, per chi è abituato a praticare la politica dal basso, nelle piazze, dalla parte dei diritti e delle minoranze, fare questa scelta oggi comporta dei privilegi, ma richiede soprattutto un grande coraggio.

Ma torniamo alle regole. In primo luogo chi sceglie di portare in Parlamento la voce dei movimenti dovrebbe impegnarsi a mantenere con questi un rapporto sistematico, facilitando le relazioni e le contaminazioni tra questi e le istituzioni. Contaminazioni che dovrebbero tradursi non solo in un lavoro parlamentare capace di assumere i contenuti delle molte battaglie rimaste inascoltate in questi anni sui temi dei diritti sul lavoro, del welfare e dell’ambiente, sulle questioni della pace e della lotta al razzismo, sui diritti civili e sulla cooperazione internazionale, ma dovrebbero riguardare anche lo stile di lavoro e di comunicazione, le forme e le sedi dei rapporti tra gli eletti e gli elettori.

Il lavoro di mediazione sarà inevitabile, soprattutto se gli equilibri parlamentari non consentiranno ampi margini di autonomia, ma la disponibilità alla mediazione non dovrebbe compromettere la coerenza rispetto alla salvaguardia e alla difesa di alcuni principi e diritti fondamentali. Il nuovo eletto dovrebbe riferire prima e dopo, secondo scadenze previste, sul suo operato in sedi di movimento, alle persone rappresentate.

Per quanto sordida possa sembrare a taluno una preoccupazione materiale, sarebbe saggio prevedere un’indicazione massima di introiti e benefici. Una novità decisiva dovrebbe consistere in un concreto distacco dall’aspetto finanziario dell’attività precedente per evitare ogni pericolo di conflitto d’interessi.

Rinunciare alla politica degli annunci, comunicare in modo chiaro, semplice e facilmente comprensibile a tutti ciò che si fa e che si è fatto Non interessa ai più chi è il nemico di chi, interessa molto invece ciò che si intende fare e che si farà concretamente. Ecco un’altra regola che potrebbe contribuire a riavvicinare l’elettorato diffidente agli eletti e alla partecipazione politica.

Infine il rifiuto di un’eccessiva personalizzazione del proprio operato istituzionale e, al contrario, il mantenimento di una forte caratterizzazione e valenza collettiva delle scelte e delle battaglie politiche condotte in Parlamento, potrebbero contribuire a curare sul piano culturale, prima ancora che dal punto vista operativo, quella politica malata che risulta così invisa all’opinione pubblica e, forse, anche ad una parte dei nostri amici lettori.