Dopo il convegno di Roma del “Manifesto per la politica industriale”, è urgente un ritorno a interventi pubblici, con risorse al di fuori dei vincoli macroeconomici e con un maggior ruolo dell’Europa
Si è tenuto il 10 dicembre 2012 a Roma l’incontro promosso dal Manifesto con la partecipazione di 150 persone. Sono state portate evidenze e considerazioni di estremo interesse. Per esempio che liberalizzare e privatizzare è considerato dalle tecnocrazie internazionali il massimo del “buono”, ma che sulla base dei dati non esiste alcuna correlazione tra quell’indice di bontà e ciò che secondo il paradigma economico dominante costituisce la prova dell’essere cosa buona: prezzi più bassi, qualità più alta, maggiore gradimento da parte dei consumatori. E ancora, per esempio, che in due tra i paesi più buoni, Olanda e Regno Unito, non governati dalle sinistre, si stanno meditando sostanziali passi che vanno verso un maggiore ruolo pubblico nel campo delle utilities (un ritorno alle origini?).
In quella stessa occasione è stato distribuito il Rapporto MET 2012, in cui si presentano tra l’altro i risultati di un’estesissima indagine statistica sulla struttura industriale (25000 casi), condotta con stringenti requisiti di qualità e avente per oggetto molti dati non disponibili da altre indagini. Il risultato più macroscopico è che gli atteggiamenti catastrofisti e quelli genericamente sfavorevoli a interventi di politica industriale dipendono dalla mancanza di dati, dall’uso di dati sbagliati, dal cattivo uso dei pochi dati esistenti. Così, ad esempio, è arduo parlare di inefficienza delle politiche pubbliche per l’Italia, in contrapposizione ad altri paesi, una volta constatato che gli aiuti totali all’industria sono scesi allo 0,21% del PIL, quando il corrispondente dato per la Germania è 0,52% di un PIL superiore e per la Francia 0,65. Inefficienze e mancanze di effetti possono certo esserci, ma è difficile individuarle quando così poco è in gioco.
Esiste invece un’evidenza storica che testimonia al di là di ogni dubbio che tutti i grandi fenomeni di crescita, di ricostruzione post-bellica e di reazione a crisi profonde sono stati resi possibili dalla complementarietà tra interventi pubblici e sviluppo delle imprese che stanno sul mercato; ciò che spiega in ultima analisi come l’espressione “the best policy is no policy” non è mai risultata del tutto convincente per la sfera politica, nemmeno ora, in un momento in cui essa è diventata anch’essa un mantra (complementare a quello del pareggio di bilancio) per le tecnocrazie internazionali, che tendono a rendere subalterni ad essa i politici nazionali.
Nel corso della riunione sono rimasti in ombra due temi cui avevo fatto qui riferimento di recente, sia pure di sfuggita: il legame tra politiche industriali e vincoli macroeconomici, il ruolo dell’Europa nelle politiche industriali e commerciali.
Nel far risaltare la contraddittorietà in cui cadono sindacati e forze progressiste quando si dichiarano d’accordo sui conti sani ma chiedono al contempo un allentamento dei vincoli sui bilanci degli stati membri, proponevo di associare a bilanci nazionali in pareggio un bilancio federale rilevante per peso e in espansione, avente per oggetto quei “beni pubblici” che hanno a che fare direttamente o indirettamente con la crescita –istruzione, ricerca, politiche industriali e commerciali- e con la possibilità di essere finanziato in deficit. È evidente che il finanziamento in deficit sarebbe indispensabile per i primi anni (visti gli effetti recessivi del fiscal compact). Aggiungevo comunque una distinzione forte tra obbiettivi di breve periodo (eliminazione dello spreco costituito da capacità produttiva e lavoro inutilizzati) e obbiettivi di crescita e innovazione.
Nel convegno si è molto parlato della qualità degli interventi, proprio a partire dal fatto che i vincoli di bilancio impediscono politiche ambiziose. Fermo restando lo spunto giusto, che il bisogno deve aguzzare l’ingegno (a mio avviso non solo il disegno degli interventi, ma altri elementi trascurati –l’adeguatezza dei soggetti e delle regole di attuazione, la copertura informativa in ogni fase delle attività di intervento, il controllo, ecc.), la mia idea è che gli attuali vincoli debbano appunto essere rimossi grazie alla crescita di dimensioni e ruolo del bilancio federale europeo.
Ma chi dovrebbe gestire le politiche? Nel convegno si è molto insistito sul ruolo delle dimensioni locali delle politiche, in ossequio ad una idea di loro aderenza ai bisogni, alle culture, alle opzioni che si aprono in specifici ambienti e, se ho capito bene, in contrasto con l’idea di politiche industriali dirigistiche da parte dei governi. Idee molto condivisibili, per un verso. Il tessuto produttivo e le culture industriali, specie per un paese come il nostro che fa leva sulle piccole e medie imprese, differiscono all’interno dell’Europa.
Questo dato, tuttavia, non cancella l’esigenza di strategie europee in materia, rivolte a fare dell’Europa un polo competitivo globale e, quindi, rivolte come minimo a contrastare o compensare gli effetti delle politiche industriali e commerciali sviluppate dagli altri poli globali e, possibilmente e più ambiziosamente, a declinare nuovi obiettivi e nuovi strumenti in funzione delle esigenze e dei vincoli che stanno emergendo a livello planetario (dall’ambiente alle risorse energetiche, dalla mortalità infantile ai nuovi dialoghi ideologici).
Di qui l’emergere di sfide difficili, alle quali i veri esperti di politiche industriali (io non lo sono) non dovrebbero sottrarsi: quali interventi concepire e gestire a livello federale, quali concepire a quel livello ma demandandone l’implementazione a livelli periferici (non necessariamente infra-nazionali), quali delegare per intero ai livelli nazionali e regionali.
Vorrei concludere riportando un bell’esempio di politiche industriali dinamiche, inventato tantissimo tempo fa in sede Agenzia spaziale europea e poi studiato dal Beta di Strasburgo. Espongo a memoria. L’ESA bandiva concorsi per cordate europee di aziende, stabilendo (oltre al contenuto, alle regole e alle procedure di gara), che gli apporti alla realizzazione dei lavori da parte delle varie aziende nazionali coinvolte, e quindi i relativi compensi, dovessero rispecchiare approssimativamente la proporzione in cui i diversi stati versavano contributi all’ESA. Chiaramente questo vincolava le aziende leader ad allearsi con aziende di altri paesi, possibilmente meno valide di aziende del loro stesso paese.
In reazione a questa filosofia, di per sé apparentemente contraria a principi di efficienza, le imprese scelsero le imprese “più promettenti” nei paesi in cui il vincolo del bando le costringeva a scegliere partner, e le stesse imprese leader si diedero da fare per innalzarne i livelli di performance con un attivissimo baby-sitting industriale.
Autentico o gonfiato (il mio è un ricordo di letture lontane) questo mi sembra un ottimo esempio di politica industriale, sia perché applicato ad un campo dinamico e innovativo (le tecnologie spaziali), sia perché rivolto ad integrare le aziende a livello europeo, rompendo la logica dei campioni nazionali. Ma si tratta anche di un buon esempio di quel che intendo per strategia europea nella competizione globale. Esistono campi ben noti in cui non possono che esistere cordate internazionali, nei quali l’idea stessa di concorrenza non può che essere ridefinita. Speriamo che non lo facciano i soliti tecnocrati.