La sua lezione è nella visione del processo economico come un sistema aperto, senza equilibrio. E l’azione pubblica non si basa su un “piano”, ma sui modi per costruire il possibile
Albert O. Hirschman seguì una traiettoria umana e intellettuale tra le più interessanti del secolo scorso, da Berlino a Londra, Parigi, Trieste, alla lotta antifascista in Spagna, all’aiuto per la fuga negli Usa degli intellettuali antinazisti (una ricostruzione è nell’articolo di Mario Pianta, Albert O. Hirschman, è scomparso un maestro).
Il suo percorso ha una svolta importante con il suo passaggio in Sudamerica. Giunse a Bogotá nel 1952 per collaborare con il Departamento Nacional de Planeación, che si occupava di dettare le linee guida della pianificazione economica, e rimase per quattro anni nella capitale colombiana, lavorando poi come consulente. L’ambiente intellettuale latinoamericano, culla in quel periodo delle teorie della “dipendenza” – basata sulla definizione di centro e periferia nel sistema di relazioni internazionali – e della macroeconomia strutturalista di Prebisch, Furtado e Sunkel, e l’esperienza di coinvolgimento attivo nelle politiche per lo sviluppo saranno l’humus culturale che lo porteranno negli anni successivi, stabilitosi definitivamente negli Stati Uniti, a scrivere The Strategy of Economic Development, una pietra miliare dell’economia dello sviluppo.
Il contributo di Hirschman è di particolare rilievo per capire alcuni dei problemi attuali degli studi economici. Innanzitutto c’è un aspetto di visione del processo economico. L’ortodossia economica moderna nasce da un progetto originario, quello di poter descrivere l’equilibrio come “l’attrattore” (unico) del sistema: in altre parole, se anche il sistema non fosse in equilibrio in un particolare momento, si muoverebbe nella direzione di ripristinarlo. In aggiunta, l’equilibrio suddetto avrebbe specifiche proprietà che lo renderebbero desiderabile (in un senso matematicamente preciso). Quel programma originario è fallito ma ha lasciato come eredità incontestata la necessità di studiare i problemi aggregati come il risultato dell’interazione di agenti razionali in equilibrio dinamico. Oggi l’economia è piena di teoremi di esistenza di equilibri fra agenti ottimizzanti che replicano fatti stilizzati e “narrano” un certo sentiero di evoluzione di un’economia come la logica conseguenza di un sistema di preferenze, di una certa tecnologia e di più-o-meno semplici regole istituzionali (si badi che de facto un teorema di esistenza altro non è che la dimostrazione che una certa proposizione si può pensare in modo non contraddittorio e non dice nulla sulla sua verosimiglianza).
Nella prospettiva di Hirschman i fenomeni aggregati sono movimenti dinamici di sistemi aperti, dove gli agenti non sono necessariamente in equilibrio e dove la persistenza dei parametri fondamentali non è tale da dar loro alcun potere descrittivo. La visione dello sviluppo economico che ne segue è quella di un processo diseguale, dove i legami tra vari settori e vari regioni sono compatibili in varie configurazioni che si retroalimentano (circoli viziosi e/o virtuosi). L’interesse è concentrato sui legami in avanti e indietro (encadenamientos hacia adelante y hacia atrás nel gergo) che connettono i vari settori, e che sono alla base del disegno di politiche selettive che attivino in modo diseguale i settori che permettono l’instaurarsi di una dinamica di sviluppo.
È da notare che, dal punto di vista politico, Hirschman non insisteva tanto sul concetto di piano o di autorità politica come agente con superiore informazione; al contrario sempre insistette sulla limitata esistenza di capacità decisionale soprattutto in paesi arretrati. L’idea centrale era quella del progetto, in coerenza con l’idea di sistema aperto e che rimanda a una visione della politica come agire e come costruzione del possibile.
L’altra grande riflessione che arriva da Hirschman è quella legata alla sua opera di frontiera tra politica ed economia, iniziata con Exit, Voice and Loyalty. Quest’opera viene associata alla political economy, o analisi economica delle istituzioni, florido filone di ricerca mainstream cui hanno partecipato molti economisti italiani e che pretende spiegare le dinamiche politiche sulla base degli stessi assiomi sul comportamento economico di cui si diceva sopra, oramai estesi a tutta l’area dell’agire umano. In realtà, il progetto di Hirschman era un altro: capire la dinamica di coevoluzione della sfera politica ed economica e come l’agire umano possa rispondere a costruzioni sociali differenti, anziché assumere un sistema di preferenze esogeno e stabile.
Come Keynes, anche Hirschman ha goduto di successo nella letteratura economica anche mainstream, ma sempre opportunamente depurato della sua carica più radicale. Anche in questo caso, sarebbe forse il caso di andarla a ripescare.