Ogni grande crisi economica ha sempre stimolato cambiamenti di sistema. Tocca alle cooperative? L’ottimismo del “coop capitalism” di N. Hertz, i problemi in campo
1. Introduzione
Il dibattito sulla grande crisi che viviamo ha, sino ad ora, girato attorno alla questione su come ripristinare la fiducia dei mercati finanziari, affinché continuino a sostenere i debiti degli Stati maggiormente indebitati.
La logica prevalente ci pare sia stata quella di assumere misure tese a ridurre i debiti, senza tener conto degli effetti depressivi sulla domanda e, quindi, sul rilancio della produzione. Dopo cinque anni di queste misure di austerità possiamo amaramente constatare come si profilino scenari sempre più inquietanti.
Misure più ardite che dovrebbero mirare non ad assecondare i mercati finanziari, ma a dominarli (Pierre Larrouturou) dovrebbero essere presi col consenso di più stati. Ma oggi sembra impossibile trovare questo consenso perchè gli Stati sono reciprocamente diffidenti e quelli meno malmessi sembrano coltivare l’idea di potere restare indenni dalle catastrofi che potrebbero colpire quelli più indebitati.
Il fulcro di questa crisi è naturalmente l’Europa dove l’assunzione di una moneta comune ha comportato maldestramente la rinuncia della sovranità monetaria, creando un deficit decisionale spaventoso.
Forse sarebbe allora il caso di cominciare ad interrogarsi su questa crisi non in termini di risposte contingenti o strutturali, ma di alternative rispetto al modo di produrre e distribuire la ricchezza.
Ogni grande crisi economica ha sempre stimolato proposte alternative, cioè come cambiare sistema.
Dagli ultimi anni della Rivoluzione Francese, il socialismo ha da sempre rappresentato l’alternativa più verosimile. Forse, per la prima volta, il socialismo non rappresenta una forma alternativa per uscire dalla crisi. Se la caduta del muro di Berlino non ha rappresentato la fine della storia, ha però cambiato le prospettive del socialismo in modo drammatico.
Gli interventi alternativi proposti sono alquanto dispersi, pur avendo punti in comune come la critica al consumismo e la necessità di uno sviluppo sostenibile. Il punto centrale di queste proposte ruota attorno alla questione ecologica, per cui usiamo la definizione di eco-economia.
Fra il socialismo e l’eco-economia esistono differenze profonde sia per quanto riguarda l’agente del cambiamento e la struttura organizzativa.
Nel socialismo l’agente del cambiamento è il proletario-produttore che mette in discussione la distribuisce della ricchezza, quindi i diritti di proprietà. Il proletario-produttore ha sempre cercato di organizzarsi in forti formazioni centralizzate, cioè nei partiti.
Nell’eco-economia l’agente del cambiamento è il cittadino che nella sua veste di consumatore mette in discussione cosa e come produrre. Certo la questione della distribuzione della ricchezza è importante, ma è affrontata in chiave etica e la risoluzione del problema è affidata allo stato col sistema fiscale, i diritti di proprietà non sono in discussione. Queste proposte non sembrano però sfociare in organizzazioni stabili e facilmente riconoscibili, ma in movimenti semi-anarchici e spontaneisti, che possono sembrare più visibili, ma sono meno incisivi delle formazioni di partito, depotenziando il movimento.
2. L’alternativa cooperativa
Se escludiamo gli economisti neo-classici persi alla ricerca del Sacro Graal dell’equilibrio generale, molti grandi economisti hanno affrontato la questione del dopo capitalismo.
D. Ricardo, influenzato da R. Malthus, prevedeva un triste futuro per l‘umanità, dove i salariati non si sarebbero mai sollevati dal livello minimo di sussistenza e i capitalisti non avrebbero avuto profitti da reinvestire, erosi dalla rendita fondiaria.
Altri hanno previsto l’ascesa del socialismo, patrocinandola attivamente (Marx) o predisponendosi con rassegnazione (Schumpeter). Keynes immaginava che lo sviluppo tecnologico ci avrebbe portato ad un’oziosa beatitudine.
Vorrei soffermarmi un attimo su John Stuart Mill (1806-1873)[1] che, forse per primo, utilizzò il termine di “Stato Stazionario”.
Nonostante Mill vivesse al centro di una spettacolare crescita economica, era convinto che prima o poi si sarebbe esaurita in uno stato stazionario. Altri economisti avevano già ipotizzato l’avvento dello stato stazionario come luogo di miseria ed abbandono. J. S. Mill, al contrario, credeva che lo stato stazionario avrebbe rappresentato un considerevole miglioramento della situazione umana: “Confesso che non mi piace l’ideale di vita sostenuto da coloro che pensano che lo stato normale degli uomini sia quello di una lotta per procedere altre; che l’urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che forma il tipo esistente della vita sociale, sia la sorte migliore desiderabile per il genere umano e non uno dei più tristi sintomi di una fase del progresso produttivo”.
Ed ancora “Ė forse superfluo osservare che una condizione stazionaria del capitale e della popolazione non implica affatto uno stato stazionario del progresso umano. Vi sarebbe sempre altrettanto scopo per ogni specie di cultura intellettuale e per il progresso morale e sociale; ed altrettanto campo di perfezionare l’arte della vita, con una probabilità molto maggiore di perfezionarla, una volta che le menti degli uomini non fossero più assillate dalla gara per la ricchezza”.
Il punto interessante ed originale del pensiero di Mill è il passaggio dal rapporto di produzione capitalistico, basato sul salario, allo stato stazionario.
Il rapporto salariale frena la produzione perché spinge l’operaio a “ricevere il massimo possibile, in cambio del servizio minimo possibile”. Un’economia nella quale la maggioranza di chi lavora non sente lo stesso interesse di chi lavora per proprio conto, non può essere efficiente.
Per Mill però l’alternativa non è la diffusione della piccola proprietà contadina o artigiana: “Se il progresso … continuerà il suo corso, non vi può essere dubbio che lo status di lavoratore salariato sarà a poco poco limitato a quella categoria di lavoratori le cui basse qualità morali li rendono inadatti a qualsiasi lavoro più indipendente, e che la relazione fra padroni e operai sarà poco a poco sostituita dall’associazione, nelle due forme, in alcuni casi dell’associazione dei lavoratori col capitalista e in altri, forse alla fine di tutti, dell’associazione dei lavoratori fra di loro stessi”.
Mill definisce la prima forma “compartecipazione” e la seconda, destinata ad affermarsi, è l’impresa cooperativa dove sono i “… lavoratori stessi su un piede di uguaglianza, che possiedono collettivamente il capitale col quale essi conducono le loro operazioni e lavorano sotto direttori eletti e destituibili da loro stessi”.
L’esperienza cooperativa maturata in Francia durante la rivoluzione del 1848 aveva fortemente condizionato l’opinione di Mill, perché non vi vedeva una sperimentazione sporadica ma un movimento già consolidato. La fiducia di Mill riposta nel movimento cooperativo era enorme: “Dal graduale progresso del movimento cooperativo, ci si può attendere anche un grande aumento della produttività complessiva dell’industria. […] Non è possibile sopravalutare questo beneficio materiale, che tuttavia è nulla in confronto alla rivoluzione morale della società che lo accompagnerebbe”.
Non è mia intenzione discutere perché la ricetta alternativa di Mill non abbia funzionato (egli stesso non mancò di indicare alcuni processi degenerativi che già emergevano nelle cooperative e che oggi definiamo come demutualizzazione), quanto piuttosto capire se l’alternativa cooperativa possa essere rimessa all’ordine del giorno.
Oggi, fra le proposte che stanno diffondendosi, c’è quella di Noreena Hertz e la sua idea di Coop Capitalism[2]. L’autrice è fermamente convinta che questa crisi stia “… facendo spazio a un modello che sarà radicalmente diverso dalla carneficina in atto”.
I presupposti per il superamento del Gucci Capitalism (“… dove non avere l’ultimo paio di scarpe della Nike o l’ultima borsa di Gucci era diventato molto più vergognoso che avere debiti …”) sono fondamentalmente tre:
1) la vecchia ideologia è stata screditata sul piano intellettuale;
2) i Governi adesso hanno il mandato ad intervenire;
3) l’ascesa di paesi con mentalità diverse.
L’ottimismo della Hertz ci apre onestamente esagerato:
a) l’ideologia neoliberista ci pare tutt’altro che sconfitta (nonostante siano aumentate le vendite dei libri di Marx) ed il potere dell’industria finanziaria sia ben lungi dall’essere ridimensionato;
b) la fiducia delle persone verso i Governi ci pare una illusione e i movimenti antipolitici sono in crescita;
c) paesi come Cina, India o Brasile indubbiamente rivendicano un maggior peso verso i paesi occidentali, ma ci sembrano ben lungi da mettere in discussione la globalizzazione (da cui hanno tratto indubbi vantaggi).
L’autrice cita diverse esperienze che andrebbero verso i Coop Capitalism, ma non ci pare chiaro se siano veramente nuovi modi di produrre o modi di adattarsi alla caduta del benessere.
In sintesi ci sembra che le idee della Hertz non centrino l’obiettivo di promuovere una Economia delle Imprese Cooperative.
Il cooperativismo propone una diversa strutturazione dei diritti di proprietà, senza però annullarli nella proprietà pubblica come nel socialismo, ma assoggettandoli ai soci produttori e non al capitale. Il lavoratore-proprietario non è motivato dalla massimizzazione del profitto, ma del proprio benessere e una economia cooperativistica è compatibile con i fondamenti della produzione eco-sostenibile. Le cooperative si sono date strutture di rappresentanza, ma come ha dimostrato G. Melniyk[3] la necessità di sopravvivere sul mercato capitalistico tende a snaturarne l’aspetto comunitario.
Esiste ancora una possibilità o una speranza in questa direzione?