La paura ha vinto sulla speranza. Il paese si trova di fronte a un piano di austerità che in ogni caso appare destinato al fallimento
I greci hanno votato e il particolare meccanismo della legge elettorale di quel paese permette ora il ritorno al potere di quegli stessi partiti – Nuova Democrazia e Pasok – che hanno contribuito a trascinare la nazione nel baratro, mentre Syriza, che presentava l’unica speranza di cambiamento, viene sconfitta di misura. La paura ha vinto sulla speranza, come ha subito dichiarato lo stesso leader della sinistra radicale.
La vittoria dei partiti tradizionali, con in testa quel Samaras che a suo tempo aveva truccato i dati relativi ai deficit pubblici e all’indebitamento del paese, ha ricevuto una spinta importante da parte di tutti gli interessi costituiti interni ed internazionali, dalla Banca Mondiale alla Merkel, che sono intervenuti pesantemente ed indebitamente nel dibattito preelettorale minacciando tragedie per il paese, per l’Europa, per il mondo, se avesse vinto il candidato della sinistra. Ora sia essi che gli oligarchi greci esultano per la vittoria. Ma si tratta di un’esultanza che, visto lo stato delle cose, probabilmente avrà vita breve.
Il paese si trova di fronte a un piano di austerità che in ogni caso appare destinato al fallimento.
Le colpe della troika e quelle dei greci
Non possiamo non ricordare che la cosiddetta troika, l’Unione Europea, l’FMI, la BCE, ha imposto alla Grecia misure di austerità molto pesanti e irragionevoli che, se portate ancora avanti, uccideranno molto presto il malato. E bisogna anche sottolineare, per come si sono svolti i fatti, che i greci hanno subito, in particolare da parte dei tedeschi – come è stato scritto – un’umiliazione cocente nella loro dignità nazionale. Ricordiamo i versi che Gunter Grass ha di recente dedicato all’argomento e che costituiscono un atto di accusa verso chi ha concepito il misfatto del Memorandum.
Accanto alla troika, bisogna ricordare le colpe della finanza internazionale, che prima ha irresponsabilmente indirizzato una montagna di denaro verso il paese, contribuendo a creare una bolla del credito e poi, quando ha visto la mala parata, ha cercato di scappare precipitosamente, provocando altri danni gravi.
Così, il paese sta soffrendo il suo quinto anno di recessione, mentre la disoccupazione ha ormai raggiunto il 23% della forza lavoro e continuano le fughe di capitali e il ritiro dei fondi dalle banche. Nel frattempo, il reddito pro-capite è diminuito nel periodo di circa il 30% e l’apparato industriale è quasi scomparso, con molte imprese emigrate all’estero o fallite (Gatinois, 2012). Intanto anche la crisi della Spagna si aggrava, dimostrazione una volta di più del fatto che salvare solo le banche non porta da nessuna parte. In ogni caso, il salvataggio si è svolto in forme tecnicamente sbagliate. Per altro verso, Gunter Grass come molti altri a sinistra, dimenticano di sottolineare le pesanti colpe della stessa Grecia nella vicenda.
Certo, il popolo greco non è composto di fannulloni e di irresponsabili, come sembra indicare una parte della stampa tedesca. I dipendenti greci lavorano in media 2120 ore all’anno, molto più degli stessi tedeschi, hanno vacanze più corte della media europea e l’età media del collocamento in pensione è di 61,7 anni, di nuovo maggiore della media europea (Andreu, 2012).
Per altro verso, bisogna ricordare che si tratta di un paese con un altissimo livello di corruzione, di inefficienza statale, di evasione fiscale, collocato, su questi come su altri fronti, un po’ peggio della stessa Italia.
I greci si sono affidati negli ultimi decenni a governi di centro-destra e di centro- sinistra che hanno trasformato lo stato in un fatto privato. Come ha affermato di recente un importante uomo di cultura greco (Dimitriadis, in Darge, 2012), lo stato appartiene al partito e il partito utilizza e sfrutta le risorse dello stato per mantenere il suo sistema di clientele. In particolare il Pasok, con Andreas Papandreu, grande demolitore del paese sul piano morale – da questo punto di vista il personaggio sembra una via di mezzo, sia pure in forma meno truce, tra Craxi e Berlusconi –, ha spinto il livello di clientelismo al massimo. Il sistema è oggi marcio nelle sue fondamenta (ibid.).
Viste le cose in altro modo, la Grecia è ancora oggi un paese semifeudale, governato da una ristretta e corrotta oligarchia di preti, militari, uomini d’affari, politici, burocrati. Alexis Tsipras è la sola figura politica nuova in un paesaggio nel quale poche famiglie si dividono il potere da diverse generazioni (Salles, 2012).
Al cuore del problema
Sullo sfondo del problema greco ci sono le questioni dell’euro e dell’Unione europea. La crisi del nostro continente si manifesta non più solo come un problema di bilanci pubblici, ma anche con le difficoltà del sistema bancario. A suo tempo, dopo la crisi del 2008, il settore pubblico era corso al soccorso delle banche, mentre si rivelavano appieno le spese eccessive di alcuni stati – in particolare, la Grecia e l’Italia. Con la recessione, le difficoltà delle imprese e dei privati hanno portato a una forte crescita dei crediti insoluti delle banche, mentre i bilanci degli stessi istituti si gonfiavano di titoli pubblici dei rispettivi paesi in una spirale perversa. Così, come ha scritto Martin Wolf, la crisi dei bilanci pubblici e quella del sistema bancario si tengono a braccetto e si sostengono a vicenda, come due ubriachi che avanzano nella notte. Aggravano le cose le difficoltà del settore immobiliare, che il sistema finanziario ha negli anni scorsi foraggiato generosamente; il problema è affiorato drammaticamente in Spagna, ma potrebbe presto manifestarsi ufficialmente anche da noi, sia pure in misura un poco più contenuta.
Sfrondato il campo da tutte le contingenze, la questione principale in cui ci si dibatte – sullo sfondo peraltro di una crisi complessiva economica, sociale, politica del mondo occidentale, crisi su cui nessuno sembra in grado di incidere positivamente – è quello di una moneta senza stato e la conclusione appare quella che o si chiude l’esperienza dell’euro o ci si avvia verso un’unione politica ed economica dell’Europa. Tertium non datur.
I continui tentativi di tanti esperti per trovare formule di salvataggio attingendo soltanto alle tecniche di ingegneria finanziaria, mentre mostrano le grandi risorse dell’ingegnosità e della fantasia umana, si scontrano con il fatto che tutte le misure, anche quelle più ragionevoli, per essere portate avanti devono essere accompagnate da più spinte forme di integrazione politica. E chi fa resistenza su questo ultimo piano non è la Germania o non soltanto la Germania.
La forma specifica in cui si manifesta poi tale squilibrio tra moneta e politica è quella dei grandi sbilanci commerciali tra i paesi del Nord e quelli del Sud e la scarsa competitività delle economie dello stesso Sud. Ci vorrebbe una diversa politica economica, che spinga verso una nuova direzione della crescita, che privilegi nei paesi del Nord lo sviluppo del mercato interno piuttosto che le esportazioni (è proprio su questo punto nodale che si consumò, tra l’altro, a suo tempo lo scontro all’interno del partito socialdemocratico tedesco tra Schroeder e Lafontaine e che portò all’uscita dello stesso Lafontaine del partito con la fondazione della Linke). Inoltre, appare necessario varare un grande programma di investimenti a livello europeo e, in specifico, aiutare le economie del Sud, a cominciare dalla Grecia, a recuperare capacità produttive e diventare più competitive. Ovviamente bisogna poi mettere in sicurezza i bilanci pubblici e difendere i vari paesi dalla speculazione. Non è poi molto importante se e quanto si ricorrerà sul piano tecnico a un intervento potenziato della BCE, a un accrescimento dei fondi a disposizione del fondo salva stati, all’emissione di eurobond o ad altre diavolerie finanziarie.
Si deve invece constatare che gli interventi della UE vengono decisi ogni volta all’ultimo momento e rappresentano sempre, almeno sino ad ora, il minimo indispensabile per sopravvivere per qualche mese o qualche settimana, mentre pongono le basi delle crisi successive. Ovviamente, poi, bisogna riattivare, per quanto riguarda tutte le più importanti decisioni a livello europeo, dei meccanismi democratici che sono stati finora del tutto assenti.
Tocca alla politica
Sull’Unione Europea continuano a pesare contemporaneamente le minacce di default di qualche paese, di fallimenti bancari, di depressione economica (The Economist, 2012). Tocca per l’ennesima volta ai politici del continente affrontare la questione della Grecia e dell’euro. Le prossime settimane potrebbero essere a questo proposito cruciali. O i leader europei trovano le idee e la forza per riformare l’eurozona, usando la crisi come una leva per far fare un salto di qualità alla causa europea o tutto può minacciare di andare a rotoli. Ma forse alla fine essi cercheranno di cavarsela, come le altre volte, decidendo misure minime indispensabili per percorrere ancora un piccolo tratto di strada.
Per quanto riguarda in specifico la Grecia, appare essenziale ridurre ulteriormente il carico del debito estero che grava sul paese, bloccare gli ulteriori tagli alla spesa sociale, agli stipendi e ai salari, fermare la svendita del patrimonio pubblico, stimolare l’economia con grandi progetti infrastrutturali finanziati dall’Europa e dalla Bei (The Guardian, 2012) e contemporaneamente contribuire ad aiutare il paese a ricreare una base economica e industriale di qualche peso.
La Grecia ha bisogno di qualcosa come un nuovo piano Marshall piuttosto che di una politica di austerità. D’altro canto, il rinnovamento del paese non si avrà senza una forte scossa interna, senza una nuova classe politica che però si vede a malapena profilarsi all’orizzonte. Senza questo rinnovamento qualsiasi piano di salvataggio esterno da solo non è in grado di funzionare veramente. E il nuovo governo uscito dalle urne non sembra assolutamente all’altezza del compito.
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