Non basta invocare ritualmente la crescita, come fanno ormai anche gli adoratori del “rigore”: servono misure alternative, che rispondano a un minimo di razionalità economica
“Viviamo in un mondo che è pieno di politiche erronee, ma esse non sono erronee per coloro che le sostengono”, questa vecchia affermazione dell’economista americano G. Stigler è quanto mai attuale, come pure attuale è la altrettanto vecchia notazione di Federico Caffè che “se misure di politica economica risultano erronee, ciò si deve all’azione di gruppi interessati, che ne traggono comune vantaggio”. Questa seconda affermazione è molto grave, ma non meno grave sarebbe l’affermazione alternativa che chiamasse in causa una incompetenza dei “policy makers”.
Ora quasi tutti, con un atteggiamento di sorpresa piuttosto sospetto, si accorgono finalmente che le politiche recessive adottate nella “fase uno” sono effettivamente recessive, e che queste hanno alimentato (anche se non avviato) la contrazione del livello di attività economica (quindi del reddito e dell’occupazione) e l’aumento del livello generale dei prezzi. Tuttavia gli adoratori del “rigore” non arrivano a mettere in discussione queste politiche, ma si profondono piuttosto in corali, diffuse, generali e generiche “invocazioni” per la “crescita”. Si parla anche troppo della necessità della crescita, ma sembra che questa sia vista non come conseguenza delle scelte degli agenti economici e delle misure di politica economica, ma come qualcosa che scende “come manna dal cielo”. Anche, e soprattutto, i tecnici che sono al governo sembrano partecipare a invocazioni rituali, del tipo delle suppliche “ad petendam pluviam”, piuttosto che impiegare le loro conoscenze tecniche (se le hanno) per individuare le determinanti della crescita e le conseguenti politiche appropriate.
Le politiche adottate fin’ora, che sono state un errore, purtroppo dai loro autori non vengono riconosciute come tali, ma vengono giustificate, talvolta (anche se con qualche lacrima) come le uniche possibili (cosa non vera); talvolta, ancor più arditamente, come quelle “giuste” perché senza di esse l’andamento dell’economia italiana sarebbe stato ancora peggiore. Mancando il riscontro controfattuale è difficile contestare questa affermazione (come pure provarla), ma l’osservazione di ciò che sta succedendo in Europa suggerisce piuttosto la conclusione che dove queste terapie sono state applicate i risultati siano stati nefasti (la disastrata Grecia aveva bisogno di altri provvedimenti; la Spagna e l’Italia stanno ingerendo la stessa medicina e si può solo sperare che per qualche favorevole congiuntura non si produca lo stesso effetto); mentre i paesi che hanno fronteggiato con maggior successo la crisi non hanno praticato le stesse terapie. Può anche darsi che senza tali politiche l’evoluzione dell’economia italiana sarebbe stata peggiore, ma è certo che con diverse e più appropriate politiche l’evoluzione sarebbe stata migliore. Talvolta si recita con compunzione la consueta banalità che “molto è stato fatto, ma certamente si può e si deve fare di più”. Per carità: non si tratta di “fare di più”, ma di fare cose diverse, radicalmente diverse.
Purtroppo ciò che è stato fatto non può essere “disfatto” e c’è da chiedersi se non sia troppo tardi per invertire la rotta. Gli effetti moltiplicativi delle misure intraprese devono ancora dispiegarsi a pieno, quindi è prevedibile un’ulteriore riduzione del Pil e un’ulteriore crescita della disoccupazione (le stime governative, ma anche quelle degli organismi internazionali, sono a mio avviso troppo ottimistiche, come è giusto che siano per cercare di influenzare positivamente le aspettative ma non certo per elaborare e valutare le politiche). Il bilancio pubblico è di conseguenza esposto al rischio di ulteriore deterioramento e questo probabilmente provocherà la somministrazione di una ulteriore dose della stessa medicina: un inasprimento della pressione fiscale dello stesso tipo praticato fin’ora, con inevitabile peggioramento della patologia che si intende curare.
Che fare dunque? Qui non possiamo ovviamente entrare nei dettagli tecnici (cosa che un ben equipaggiato staff di tecnici al governo avrebbe ormai avuto a disposizione tempo sufficiente per fare) ma possiamo sottolineare alcune necessarie chiare inversioni di rotta:
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Intervenire sui mercati finanziari e sul ruolo della Bce. La tutela delle rendite finanziarie a qualsiasi prezzo per l’economia reale non può continuare ad essere l’obiettivo della politica economica.
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Aumentare le entrate con misure diverse da quelle praticate fin’ora. Non tutte le misure di aumento del gettito hanno gli stessi effetti recessivi. A parte gli aspetti di equità, le diverse propensioni marginali al consumo vanno tenute presenti.
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Ridurre la spesa pubblica tagliando voci anche consolidate di spesa ingiustificata e ingiustificabile. Non si può continuare ad erodere servizi sociali e investimenti pubblici necessari lasciando intatto o addirittura aumentando il malaffare e le rendite parassitarie ad ogni livello di governo e di sottogoverno.
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Applicare misure per la crescita e non fare semplici invocazioni propiziatrici. Il “rigore” di cui abbiamo bisogno sta nella coerente combinazione di misure per la crescita, non in quella scemenza (unanimemente giudicata come tale da premi nobel per l’economia di diverso orientamento) del “pareggio di bilancio in costituzione”. La crescita aiuta il risanamento dei conti. La stessa sfiducia dei cosiddetti “mercati” nasce non tanto dalla dimensione del debito, quanto dalla assenza di crescita. La Germania ha rimesso a posto i suoi conti pubblici attraverso la crescita, e si è servita dei disavanzi per finanziare la crescita; noi ci serviamo dei disavanzi per finanziare le rendite parassitarie.
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Praticare politiche reali sul lato dell’offerta; in particolare: allargamento della base produttiva e incremento della produttività. Esiste anche un ministero che dovrebbe farsi carico di ciò. Nessuno sembra rendersi conto che l’intero sistema industriale del paese si sta sgretolando giorno dopo giorno e che il processo rischia di essere irreversibile.
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Realizzare politiche per il cambiamento istituzionale. Non mi riferisco tanto alle “riforme costituzionali”, quanto al cambiamento (opportunamente forzato) delle pratiche operative degli agenti economici. Corruzione diffusa, rent seeking, emarginazione del merito, clientelismo, illegalità, restrizioni della concorrenza, latrocinio istituzionalizzato e così via costituiscono il marciume istituzionale da scrostare severamente senza furbesche finzioni.
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Realizzare l’Unione europea non soltanto in termini di unione monetaria ma anche in termini di unione politica, restituendo le funzioni della politica economica (macroeconomica e di settore) agli organi comunitari che siano espressione della democrazia rappresentativa.
Come si vede, queste direzioni non si richiamano a esigenze di equità (cui la politica dovrebbe tuttavia rispondere) ma semplicemente a elementari esigenze di razionalità economica, rispondere alle quali è il minimo che si possa chiedere a un governo “tecnico”. Perseverare nelle direzioni intraprese e rifiutarsi di virare verso queste nuove strade (ammesso che sia ancora possibile) impoverirebbe il paese e lo spingerebbe per sempre fuori dalla fascia delle economie avanzate. Un prezzo troppo alto da pagare ai ragionieri del rigore finanziario (e delle relative rendite).