“Quello che ho chiesto trent’anni fa all’onorevole Enrico Berlinguer e quello che chiederei oggi all’ingegner Marchionne”, Legma edizioni, è un poetico racconto di memoria dell’operaio e sindacalista Fiat Domenico Liberato Norcia: stralci di vita familiare e lavorativa, usi e costumi dalla campagna alla fabbrica, affetti forti e sacrifici. Un estratto
Il mio banco di prova è stato il contesto Fiat Mirafiori di Torino dove approdai dopo lunghe e dure vicissitudini, nell’ormai lontano 1969, quando pensavo che la mia vita fosse in Germania; là avevo lasciato un lavoro sicuro, una moglie e due splendidi bambini ed il bene più prezioso per un uomo, mia madre sepolta nel cimitero della città di Hameln. Arrivai a Torino dalla Germania il 23 Marzo, giorno in cui fui chiamato per la visita di idoneità al lavoro. Devo dire che il destino ha avuto il suo ruolo in tutto ciò! Lavoravo in Germania, quando mio cognato mi mise al corrente del fatto che la Fiat di Torino faceva grande richiesta di operai e allora un posto alla Fiat era considerato lavoro fisso e assicurato. Mio cognato fece subito la domanda e nel giro di un mese fu chiamato e subito assunto. È stata mia moglie ad insistere perché anch’io presentassi domanda di assunzione e, dopo un mese esatto, fui chiamato dalla Fiat per la consueta visita medica.
Alla Fiat di TorinoFu una visita molto accurata e, durante il colloquio, vidi che l’impiegato che mi faceva le domande scrisse su un documento “assunzione urgente”. Verbalmente mi disse che il lunedì successivo avrei potuto recarmi a Mirafiori alla porta n. 1 e chiedere alle guardie di accompagnarmi all’officina 52. Puntuale il lunedì mattina mi recai alla porta n. 1 e da lì una guardia mi accompagnò in un ufficio dove un impiegato mi accompagnò sul posto di lavoro e, rivolgendosi al capo squadra, disse che io ero stato assegnato alla sua squadra. Il caposquadra, dopo avermi dato un grembiule, un paio di guanti, degli occhiali che, mi disse, in officina non dovevo togliere mai. Mi accompagnò nel luogo dove lavoravano due operai con le pinzatrici e, dopo aver aspettato che finissero il ciclo del lavoro, disse ad uno di loro: “Insegnategli il mestiere” e se ne andò. Il mio nuovo compagno di lavoro mi disse: “Per il momento guarda quello che noi facciamo, e quando tu vuoi, ti facciamo provare.” Cominciai a guardare: alla loro sinistra c’erano due operai che posizionavano il padiglione (così era chiamato il tetto della vettura) su un attrezzo, per controllarlo, passavano la mano con i guanti, alla ricerca di eventuali bolli, che provvedevano ad eliminare con lima e martello. Ultimato il controllo, il padiglione veniva posto accanto a noi e a questo punto i miei due nuovi colleghi lo sistemavano su un attrezzo per aggiungere il parabrezza, sempre in lamiera, e così il padiglione e il parabrezza venivano bloccati assieme per essere saldati con le pinze. Un operaio iniziava a saldare la parte alta sinistra scendendo giù fino al centro. Ad ogni punto di saldatura, distanziati a due cm si sprigionava una fascia di scintille che si espandeva a raggio nel corpo e nel viso. Eravamo costretti a respirare un fumo acre di olio bruciato. Non si poteva fare a meno di respirare quel fumo puzzolente. La stessa operazione al lato destro. Finita la saldatura, il padiglione veniva messo sopra un carrello e, quando il carrello era pieno, un altro operaio lo trasportava nella zona dei mascheroni dove sei operai (partivano all’arrembaggio!) assemblavano le due fiancate, il mascherone e il pavimento e con le pinze eseguivano le altre saldature: altro fumo, altre scintille, da lì, partiva per la linea sopraelevata. Alle nostre spalle vi erano due giostre rotanti con un diametro di sei metri e nove postazioni di lavoro. I nove operai caricavano i pezzi che servivano per l’assemblaggio della fiancata, e, dopo aver eseguito le saldature necessarie, l’ultimo uomo della postazione prelevava la fiancata completata e la agganciava sulla linea che scorreva in alto, trasportandola verso la zona dei mascheroni. L’officina era un luogo dantesco e gli operai sembravano i dannati nelle bolge. Si vedeva solo il fumo intenso, fra il groviglio delle pinze pensili e il rumore assordante, i martelli che battevano, la catena della linea che manteneva un rumore costante, le mole abrasive, i carrelli che giravano da una parte all’altra, era un caos completo. Il primo giorno rimasi sbalordito: l’istinto era quello di rifare la valigia e ripartire, ma dovevo stringere i denti e continuare. Mia moglie era rimasta in Germania con i figli. Per me era una prova, se tutto fosse andato bene, avrei fatto trasferire tutta la mia famiglia, altrimenti sarei tornato in Germania. Il secondo giorno chiesi al mio compagno di lavoro se potevo provare ma lui mi rispose: “Lasciaci lavorare un paio di ore per portarci un po’ avanti, poi ti faccio provare”. Vedevo che il ritmo di lavoro che loro sostenevano era molto alto, quindi per potersi avvantaggiare dovevano sudare ancora di più. Ricordo che mi dissero anche di non intraprendere discussioni con i compagni di lavoro, la quale cosa avevo trovato assurda ma poi avevo capito il perché. Dopo tre ore uno di loro mi chiese se avessi voglia di provare e di fare un pezzo di saldatura di cinque punti approfittando del fatto che doveva cambiare pinza. Così iniziai e come tutte le prime volte non andò tanto bene, ma il mio compagno di lavoro sapeva bene quanto era difficile l’inizio ed ecco perché mi fece dare solo cinque punti. Le pinze pensili erano molto rigide e nell’adoperarle mi facevo male nei fianchi anche perché non sapevo usarle bene. A mano a mano che passavano i giorni facevo sempre dei punti di saldatura in più. Dopo quattro o cinque giorni, passò il capo a chiedere al mio compagno di lavoro come procedessi il quale gli rispose che andavo bene. Lui si allontanò senza fare commenti. Il mio compagno di lavoro mi disse: “Vai piano, impara bene perché dopo andrai avanti da solo e dovrai sudare come noi, anzi peggio perché non sei abituato”. Gli ultimi cinque giorni prima che loro finissero la produzione, lasciavano cinque pezzi, che io dovevo fare da solo. L’ultimo giorno mi lasciò lavorare da solo con l’altro compagno e lui si limitò a controllarmi ed intervenire solo ogni tanto per farmi tirare il fiato. Solo allora incominciai a rendermi conto di quanto aveva ragione il mio compagno che mi faceva l’addestramento, di quanto faticoso era quel lavoro. La pinza pensile che adoperavo per fare le saldature, era tirata su da una corda di acciaio, che si avvolgeva in una scatola di forma rotonda trattenuta da un binario semicurvo in alto e che si spostava tramite due rotelle da una parte all’altra. Nel momento in cui dovevo spostarmi con la pinza per poter eseguire la saldatura, contemporaneamente dovevo fare forza per tirare la pinza con tutti i tubi attaccati ad essa; una volta terminata la saldatura, tutto l’attrezzo era tirato su dall’ avvolgimento in alto. I tubi di gomma mi battevano nei fianchi e nelle spalle, a fine giornata avevo tutto il corpo indolenzito. Il mattino seguente venne il capo prima che iniziassimo il lavoro e mi disse: “Puoi andare avanti da solo”. Spostò di posto il mio compagno istruttore, che ne fu felice perché ebbe un lavoro meno pesante. Quando terminavo il lavoro e uscivo fuori da quella bolgia, le orecchie mi ronzavano fino a quando rientravo a casa. Dopo il tredicesimo giorno il capo venne da me e mi disse di andare con lui. Lo seguii per circa trecento metri senza chiedere nulla, poi entrammo in un ufficio dove c’erano cinque o sei operai e operaie. Dopo aver chiesto al mio capo di accendere la luce (mi meravigliai che l’avesse chiesto: che strano, pensai, bastava che allungasse la mano, l’interruttore era al suo fianco) disse: ” Bene, vi dò una bella notizia: siete tutti assunti”. Poi aggiunse: “Ora ritornate al vostro posto di lavoro e comportatevi bene in futuro”. Tornammo al nostro posto e riprendemmo il lavoro. In quei 13 giorni ho tribolato molto ad eseguire quel lavoro, anche se nel passato avevo già fatto lavori pesanti. Ero ospite da mio cognato che abitava a Nichelino. Mi ero comperato una bicicletta per raggiungere la fabbrica. Appena uscivo dal lavoro andavo in giro alla ricerca di una casa. Allora era in uso che coloro che affittavano casa mettevano un volantino con scritto affittasi o vendesi, sul portone. C’erano molti appartamenti in vendita ma pochi in affitto e con dei prezzi da capogiro come oggi. Ed in più su molti cartelli c’era un’aggiunta: NO A MERIDIONALI.
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