La discussione sull’Europa si intreccia alla manovra economica di casa nostra, che moltiplica le iniquità. Poi ci sono le rivolte in molti paesi, i conflitti che non si fermano. Ci sono altre Europe sotto i nostri occhi, quella delle disuguaglianze, delle guerre, del disastro ambientale. Altre Europe con cui fare i conti. Ne parla Guglielmo […]
Lunga storia quella d’Europa
1. L’Europa unita è un valore perché è una garanzia di pace, sia per gli europei di origine controllata che per gli altri, di più nuova presenza, aggiuntisi ai primi nel corso dei decenni. Senza risalire troppo nel tempo, prima c’è stata una guerra di cento anni tra Francia e Inghilterra; poi un’altra, durata molti secoli, con alterne fortune e alleanze, di tutti contro tutti, per il predominio sulla Germania e di conseguenza sull’intero continente. Motivo dichiarato: come pregare dio correttamente, notava Voltaire. Nel nostro piccolo, si può anche riflettere che dopo secoli di guerre, nel centinaio di anni che intercorrono dal 1848 ai trattati di Roma del 1957, l’Italia si è impegnata in sei guerre europee di cui tre guerre soprannominate d’indipendenza, senza considerare la presa di Roma, deprecata oggi da molti, due guerre mondiali, con in mezzo la guerra di Spagna, nonché tre guerre di conquista coloniale in Africa, la fondazione dell’impero e l’Albania. Alla nascita del primo embrione di un’Europa unita, sono invece seguiti 50 anni di pace, interrotti soltanto dal bombardamento umanitario sulla Serbia. Siccome in Libia, negli scorsi mesi, si è avuta una sgradevole replica di quella tendenza umanitaria di taluni stati europei – in particolare Francia e Inghilterra, ormai unite, ma non Germania, in questo caso, a bombardare città di altri, la prima preoccupazione sull’Europa riguarda questo aspetto: un’Europa bombardante non fa per noi. Occorre tenerla unita e rilanciare, ogni volta se ne presenti l’occasione o la necessità, il popolo della pace, la timida seconda potenza mondiale.
Arriva Mitch
2. Non troppi anni fa, nel 1998, i paesi del centro America, soprattutto Nicaragua e Honduras furono investiti dall’uragano Mitch con terribili devastazioni e migliaia di morti. Mitch è stato un uragano ben previsto dai meteorologi dei paesi dell’America centrale e del resto del mondo, tanto più che era l’ennesimo della stagione, e si poteva anticipare – lo dissero in molti – che fossero in arrivo guai ancora più grossi. I paesi in attesa dell’evento non furono in grado di fare una buona prevenzione perché mancavano degli strumenti necessari per spostare in tempo la popolazione e per i soccorsi, dopo il diluvio. Il Fondo monetario internazionale aveva stabilito regole molto severe per garantire la restituzione dei prestiti e in pratica proibito l’acquisto di elicotteri e di macchinari per il movimento della terra, necessari per costruire qualche riparo e ridurre la strage.
Ora tocca all’Europa: Mitch è arrivato qui. Così l’Europa non può più contribuire in modo corrispondente alla sua ricchezza finanziaria e industriale ai disastri nel Sud del mondo: alimentari, sanitari, ambientali. Il Fondo monetario con le sue catene perverse l’ha raggiunta prima ancora di Mitch. Terremoti, epidemie, alluvioni nel mondo intero sembrano non riguardarla più. L’aumento del benessere e dell’informazione, che ha permesso di festeggiare la nascita di Nargis, la bimba numero 7 miliardi, nata probabilmente nell’ottobre in India, si è rovesciato nel suo contrario e rende la popolazione mondiale molto più fragile, proprio per il numero così elevato di viventi. Ogni città mondiale, dalla più ricca a quella fatta solo di favelas e slums, diventa un punto di debolezza che avrebbe bisogno di attenti programmi di mitigazione e adattamento, del resto previsti dagli uffici di Bruxelles. Il problema riguarda l’intera Terra. In Francia si muore per il caldo, Praga è sommersa, le Cinque Terre franano in mare, Il mondo dei ricchi non sa reagire al terremoto dell’Aquila. Di fronte a un’Europa consapevole che punta al risparmio energetico e di natura, che impara a riciclare i rifiuti, che si sforza di tagliare l’inquinamento, c’è un’altra Europa che consuma una percentuale elevata della Terra e dell’acqua comune, che sfrutta i vicini meno dotati di finanza e si arricchisce così a dismisura (o crede di farlo). Sono le due Europe che si affrontano nella crisi della finanza.
Poi c’è il denaro
3. Sul denaro, Mark Twain ha scritto un piccolo capolavoro. Frau Merkel farebbe bene a rileggerlo; e anche signor Monti, o signor Draghi, tutto considerato. Per quei pochi che non lo ricordano, si tratta di questo: ai tempi della Regina Vittoria, la Banca d’Inghilterra emette due biglietti da un milione di sterline. Uno è utilizzato per qualche affare, l’altro rimane in cassaforte, ciò che fa aumentare l’emozione generale. Ferve il dibattito filosofico sull’essenza del denaro. Il valore sta in un pezzo di carta con una firma, oppure è qualcosa d’altro? Roba di Banca o sentimento popolare? Due fratelli, ricconi, hanno idee contrastanti e decidono di fare una scommessa. Scelgono un tipo male in arnese, affamato ma dignitoso, il vero rappresentante del popolo, secondo loro. Lo vedono dalla finestra del loro ufficio alla City e puntano su di lui: uno dice che mettendogli in mano la famosa banconota da un milione di sterline, quello non ne ricaverà niente di buono e morirà lo stesso di fame; l’altro fratello è convinto del contrario; la semplice esibizione del biglietto di banca – che ovviamente nessuno sarà in grado di cambiare – gli otterrà cibo e vestiti e altro ancora, in sostanza credito; tanto da farlo sopravvivere e perfino prosperare nel tempo della scommessa, un mese. In cambio il giovanotto, finito il periodo di prova, avrà un lavoro che i due s’impegnano a concedergli. Il racconto prosegue; i due semidei spariscono e il giovane resta solo, con il suo milione e tutta Londra davanti a sé. Come tutti i lettori di Una banconota da un milione di sterline sanno bene, è il secondo banchiere ad avere la meglio. Il buon credito conta più del contante; e con sorpresa generale, l’immagine o la fama più ancora del credito… Basta mostrare il denaro o perfino affermarne in modo credibile il possesso per ottenere fiducia: il credito come rapporto tra persone. Solo dopo valgono gli effetti delle banche.
4. Anche senza insistere nello scambiare il giovane povero per il nostro Mariomonti, i due fratelli in finestra per Merkel e Sarkò, oppure, cambiandone il travestimento, per Lagarde e Draghi, il quadro odierno a pensarci bene è pieno di richiami a quella favola: c’è la Gran Banca nazionale che affida senza paura e presumibilmente senza garanzie, il biglietto (uno, dieci, cento miliardi di odierne sterline?) ai due straricchi, c’è la loro scommessa, insulsa ma gravida di conseguenze, che sembra un caso di speculazione sui derivati; c’è la reputazione che plasma le vite, simile in questo alle case di rating, c’è perfino la promessa di un futuro lavoro per il precario senza fissa dimora, ma meritevole e ben disposto. Attenti!, osservava ai lettori, sorridendo, il grande Mark Twain: questi banchieri sono proprio via di testa. Conta il lavoro, conta la gioventù, l’iniziativa personale, la fiducia nelle proprie forze. Il denaro in sé non è niente.
5. Oggi le cose sono un po’ cambiate, l’ottimismo è scomparso. Nel mondo domina la Banca e sull’insieme delle Banche è la Finanza che ormai prevale; sotto, il terzo stato, i senza diritti: in particolare, è solo il terzo stato che si appassiona ai contanti, chiede stipendi e pensioni; tra i ricchi, monete di metallo, lingotti, soldi di carta filigrana servono poco, forse solo per l’elemosina e per il caffè. L’accelerato passaggio alla moneta elettronica che è in corso, va proprio in quella direzione. Sulla crisi attuale, almeno a giudicare dallo Spread tra Bund e Btp che scende, nonostante tutto, molto lentamente, la maggior parte degli specialisti ritiene che Mariomonti – ammesso che il giovanotto della scommessa si chiami proprio così – non ce la farà a svoltare e vincerà la posta il fratello liberista-pessimista. E sono in molti a scommettere con lui.
6. Sono passati 120 anni e molte crisi finanziarie sono defluite sotto i ponti del Tamigi, o del Meno o della Senna. Il modo per affrontarle è sempre lo stesso. In una prima fase, quando la situazione si fa incerta, la si peggiora con la fuga dei capitali. I ricchi si difendono così, si chiamano fuori di fronte alle difficoltà e moltiplicano automaticamente quelle esistenti. Cresce la disoccupazione e le masse s’impoveriscono. Nello stesso tempo esse sono chiamate a mostrare le proprie virtù, che si riducono poi a una, lo spirito di sacrificio: i governi aumentano le tasse, dirette e indirette, tagliano il potere d’acquisto: i salari e, se ne vale la pena, le pensioni. Quel che è peggio, nuove regole sono imposte, sempre le stesse. Si deve ridurre la spesa pubblica, alleggerire lo stato, privatizzare, portare tutto al mercato, cambiare vitto, aprirsi alle merci estere. Il lavoro deve essere incerto – loro dicono flessibile, noi precario – e la pretesa di fare dei conti anche per l’anno prossimo e il futuro, non è scientifica e deve essere sconfitta. Manuali su manuali confermano quel che i capitalisti già sanno per scienza infusa, quel che s’insegna nelle più celebrate università e si applica nelle organizzazioni internazionali. Solo chi si adegua e consente alle regole, merita di restare sul libro paga. Gli altri si arrangino.