La soluzione della crisi passa per un maggiore e migliore intervento dello Stato: un’imposta patrimoniale sulla ricchezza mobiliare può creare 800.000 posti di lavoro
Ci siamo sforzati di esporre la proposta nel modo più chiaro possibile; donde la forma un po’ inusuale di questo testo.
1. Premessa. L’emergenza economica in cui ci troviamo è l’insieme di più emergenze. Una è quella occupazionale. Gli economisti seri concordano su questi quattro punti: a) i prossimi mesi, o anni, di recessione aggraveranno questa emergenza; b) una crescita debole, paragonata a quella degli ultimi anni prima della recessione, non è sufficiente a risolvere questa emergenza, e forse nemmeno a impedirne l’aggravarsi; c) i costi di questa emergenza sono enormi, e di lungo periodo: in quanto oltre alle gravi sofferenze di natura sia economica sia psicologica per i disoccupati (che molti politici trascurano) comprendono anche la perdita di capacità lavorative, la disaffezione verso il lavoro, e vari tipi di degenerazione del tessuto sociale; d) il mercato non è in grado di risolvere questa emergenza.
Ne consegue inevitabilmente quanto segue:
a) l’emergenza occupazionale va affrontata come tale, cioè con provvedimenti di emergenza, che devono durare fino a che dura l’emergenza.
b) È compito dello stato sostituirsi al mercato per creare occupazione.
c) Le risorse per affrontare questa emergenza devono essere sottratte al ricatto dei mercati finanziari. Infatti un aumento del costo del debito implica una riduzione delle risorse pubbliche disponibili, il che fa aumentare la disoccupazione; e contrastare la disoccupazione con nuova spesa pubblica implica un aumento del costo del debito, e così via.
d) Le risorse necessarie devono quindi provenire da una fonte consistente e stabile. La via più percorribile in tempi brevi è la tassazione della ricchezza mediante un’imposta patrimoniale.
Donde la proposta qui illustrata. Essa solleva quattro ordini di problemi: tecnici, cioè come implementarla; economici, cioè la valutazione degli effetti che avrebbe sull’economia; finanziari, cioè dove trovare i soldi per attuarla; e infine politici. Degli aspetti tecnici, economici e politici discuteremo più sotto; è importante prima di continuare verificare che i soldi ci siano, per dirla un po’ brutalmente.
Ci sono. A quanto riferisce la Banca d’Italia, la ricchezza mobiliare netta degli italiani, cioè quella costituita da moneta e titoli (e non da abitazioni e altri immobili, e calcolata sottraendo i debiti) è di circa 2700 miliardi di euro, di cui almeno il 45% è nelle mani del 10% più ricco. Il costo della manovra suggerita è di poco meno di 12.5 miliardi (includendo una tredicesima mensilità). Ciò implica che il suo costo potrebbe essere coperto con un’imposta patrimoniale media pari allo 0.46%, cioè al 4.6 per mille (nell’ipotesi che i contributi previdenziali vengano interamente pagati da altre fonti, vedi sotto). Per avere un’idea della portata di una simile imposta si consideri quanto segue: un cittadino che disponga di una ricchezza finanziaria di 10.000 euro (un valore piuttosto basso, dato che il patrimonio include ogni tipo di risparmio, compresi i conti correnti bancari) dovrebbe pagare 46 euro all’anno; non c’è motivo per cui non possa essere autorizzato a pagare in dodici rate mensili di tre euro e ottantatre centesimi ciascuna. Ci sentiamo di dire che questo esborso è ampiamente alla sua portata; e lo è quindi, a maggior ragione, quello richiesto ai cittadini dotati di un patrimonio maggiore.
2. Alcune questioni tecniche. Veniamo adesso ad alcune considerazioni tecniche. Ovviamente questo elenco è assolutamente preliminare: come abbiamo notato più sopra, le questioni tecniche andranno affrontate attentamente e rigorosamente in sede di attuazione della manovra.
1. Quanto deve durare questo provvedimento? Fino a quando dura l’emergenza sociale. Il prelievo potrebbe comunque essere ridotto man mano che vada a regime la lotta all’evasione fiscale. L’esiguità dell’aliquota richiesta fa sì che non ci siano problemi a tenerlo in vigore a lungo.
2. Non sarebbe meglio un’imposta progressiva? Sì. la somma richiesta potrebbe essere ottenuta esentando dal contributo i piccoli patrimoni, e imponendo un’aliquota maggiore ai patrimoni più consistenti. Nel primo paragrafo abbiamo voluto sottolineare che anche un’aliquota proporzionale è ampiamente sostenibile, e quindi una progressiva lo è a maggior ragione.
3. Non bisognerebbe considerare anche i contributi previdenziali, il che aumenterebbe il costo della manovra? Sì, ma la variazione di costo non sarebbe rilevante. Una parte potrebbe essere versata dallo stato, grazie alle maggiori entrate dell’IVA dovute ai consumi dei nuovi percettori di stipendio; un’altra parte potrebbe essere ricavata da una riduzione delle spese per la tutela dei disoccupati; e infine una terza parte potrebbe essere ottenuta con un’aliquota maggiore sui patrimoni più alti, mediante un’aliquota progressiva. Anche se l’intero ammontare dei contributi fosse finanziato con questo schema, comunque, l’aliquota media salirebbe allo 0.5% (il che per il nostro esempio del primo paragrafo implicherebbe un esborso di 4 euro e 17 centesimi al mese).
4. Non c’è pericolo che questa imposta faccia fuggire i capitali all’estero? No, per due motivi. Il primo è l’esiguità delle aliquote implicate. Il secondo è che i capitali che potrebbero fuggire sono già all’estero. La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è costituita da depositi bancari solo per il 30% (e questa quota è assai più bassa per i grandi patrimoni); il resto sono titoli di vario genere, italiani o esteri a seconda di quali rendono di più, o sono più sicuri. Ciò che sarebbe tassato è la proprietà del patrimonio, indipendentemente da come e dove è investito. Difficilmente qualcuno affronterebbe i costi di intestare il proprio patrimonio a prestanome esteri solo per risparmiare meno dello 0.46% all’anno per qualche anno: coloro che attuano pratiche di questo genere lo farebbero comunque, e coloro che non lo fanno non lo farebbero solo per evitare un’aliquota così bassa. Naturalmente si può e si deve sperare che si riesca a tassare pesantemente i patrimoni occultati all’estero, ma questo è un altro discorso.
5. Ci possono essere difficoltà perché non si sa di chi siano i patrimoni. Falso. Ogni deposito, sia esso in contanti o in titoli, ha una sua nominalità. La tassazione inciderebbe sul patrimonio indipendentemente da chi ne è il titolare, e può quindi persino essere effettuata in regime di anonimato, come si è fatto per i capitali scudati, anche se secondo noi ciò non sarebbe affatto giusto.
6. È possibile che ci sia uno scarto fra le qualificazioni che si offrono e quelle che vengono domandate, e quindi che i lavoratori siano assunti per lavorare “per finta”. Il rischio c’è. Può essere fortemente limitato con l’istituzione di corsi di qualificazione considerati come parte dell’attività lavorativa e destinati a chi abbia qualifiche sufficientemente prossime a quelle richieste. Per esempio, i laureati in lettere disoccupati potrebbero essere utilizzati come insegnanti di sostegno in materie letterarie, dopo un opportuno corso di pedagogia.
7. Perché tassare solo il patrimonio mobiliare e non anche quello immobiliare? Perché il patrimonio mobiliare è un indicatore più corretto della ricchezza effettiva. In primo luogo i valori catastali sono poco attendibili; in secondo luogo è relativamente facile che un immobile del valore di, poniamo, 300.000 euro sia un’eredità di famiglia e il suo proprietario non abbia altre risorse, e quindi che il pagamento di un’imposta dello 0.15% (le aliquote sarebbero naturalmente più basse che nel caso in cui venga escluso il patrimonio immobiliare), cioè di 450 euro, sia per lui molto gravoso, o comunque indebitamente più gravoso rispetto a un altro cittadino che possegga un patrimonio di pari entità ma di diversa natura. Inoltre, il patrimonio immobiliare è, di fatto, già gravato da imposte di altro tipo in misura piuttosto consistente. Tuttavia è possibile pensare a schemi che includono anche il patrimonio immobiliare (e quindi, come abbiamo visto, con aliquote più basse) con aliquote progressive e soglie di esenzione.
8. Non c’è il pericolo che questo schema si traduca solo nella sistemazione degli attuali precari della pubblica amministrazione? Sì, anche se questo “solo” sarebbe comunque un buon passo in avanti. Dato però che si utilizzerebbero risorse aggiuntive, deve essere chiaro che anche la manodopera deve essere tale; quindi l’assunzione in un dato ente deve essere condizionata alla non riduzione del personale del medesimo, precario o no. Un’amministrazione che assuma nel quadro di questa manovra chi è già un precario nella PA deve contestualmente assumere un altro precario a condizioni almeno eguali a quelle del lavoratore precario che avrà sostituito. Naturalmente rimane aperta la questione più generale della riduzione del precariato, che però esula da questa manovra.
3. Alcune questioni economiche.
1. Quali mansioni dovrebbero svolgere i neo-assunti? Le mansioni per le quali sono qualificati o qualificabili, e delle quali ci sia effettivamente bisogno. Questa proposta nasce dalla constatazione dell’esistenza di un triangolo di cui tutti e tre i lati sono fondamentali, e cioè la disponibilità di una vasta offerta di lavoro non utilizzata, una vasta domanda di servizi pubblici insoddisfatta, e l’esistenza delle risorse necessarie a far sì che questa domanda possa incontrarsi con l’offerta. Il secondo “lato” del triangolo implica che i lavoratori vengano impiegati dove servono davvero; questo schema non deve sostituire le politiche di sostegno e riqualificazione dei disoccupati, che però sarebbero naturalmente rese meno costose dalla riduzione del loro numero.
2. Non sarebbe meglio investire i fondi resi disponibili dall’imposta patrimoniale in grandi opere pubbliche? No. Da una parte ciò che di cui l’Italia ha bisogno è in primo luogo uno sviluppo dei servizi sociali e ambientali; dall’altra i disoccupati, e in particolare i giovani disoccupati, sono in buona parte dotati di una qualifica che li rende poco adatti alle mansioni tipiche delle grandi opere, e più adatti all’occupazione nel settore dei servizi. Ancora, le grandi opere sono tipicamente capital intensive, e quindi poco utili se l’obiettivo che si vuole raggiungere è aumentare l’occupazione. Infine esse sono tradizionalmente uno dei luoghi di massimo spreco delle finanze pubbliche.
3. Non c’è il pericolo che i fondi vengano usati in modo da una parte clientelare, e dall’altra per assumere “i soliti raccomandati” in “lavori socialmente inutili”, in pratica creando un ceto di “disoccupati di professione?” Sì, il pericolo c’è, ma può essere evitato; bisogna naturalmente fare le cose bene. Per esempio, potrebbero essere i comuni a indicare le mansioni su cui effettuare le assunzioni, che però dovrebbero essere a carico di un’agenzia nazionale, cui spetterebbe anche il compito di valutare le richieste dei comuni. Comunque non sembra che gli eventuali pericoli siano tali da togliere validità alla manovra; e in ogni caso la loro valutazione è un problema che va affrontato dopo che si sia presa la decisione politica di procedere in questa direzione.
4. Non c’è il pericolo di una concorrenza indebita al mercato del lavoro ufficiale, con effetti distorsivi sull’occupazione ordinaria? Il pericolo è molto limitato. Esso può essere drasticamente ridotto limitando le assunzioni ai settori dei beni pubblici, cioè di quei beni che il settore privato non è in grado di fornire in modo efficiente; essi sono anche quelli in cui si hanno in Italia i maggiori ritardi. Un esempio ovvio è la tutela dell’ambiente, un altro i servizi universalistici di assistenza, per esempio la prevenzione sanitaria sul territorio.
5. Non si creerebbe un’anomalia italiana, vale a dire un eccesso di occupazione pubblica? Al contrario, si rimedierebbe, sia pure parzialmente, a una grave anomalia italiana, e cioè la carenza di occupazione pubblica (e quindi dei servizi pubblici), come risulta chiaramente dal confronto con i paesi europei paragonabili al nostro. In base agli ultimi dati confrontabili resi disponibili dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (si veda il sito http://laborsta.ilo.org/data_topic_E.html), nel 2008 i dipendenti pubblici erano 3.600.000 in Italia, ma 5.780.000 nel Regno Unito e 6.030.000 in Francia (quest’ultimo dato è relativo al 2006); entrambi i paesi hanno un numero di abitanti molto simile a quello dell’Italia. In Germania erano 5.840.000, meno che in Francia, ma sempre il 62% più che in Italia, mentre la popolazione è superiore solo del 36%; analogamente, in Spagna erano 3.050.000, circa il 15% meno che in Italia, ma con una popolazione inferiore del 24%. Perfino gli USA (dato del 2009) hanno un numero di dipendenti pubblici pro capite, esclusi i militari, superiore di circa il 20% rispetto all’Italia.
6. C’è il rischio che si renda meno flessibile il mercato del lavoro, in quanto il pericolo della disoccupazione sarebbe meno temibile, e quindi che la politica proposta sia in contrasto con un’importante componente della strategia fin qui adottata, vale a dire la riduzione del costo del lavoro sino al ripristino di una sufficiente competitività. Esatto. Questa politica si inserisce in una diversa strategia di lotta al a crisi economica. Di ciò ci occupiamo più sotto a proposito degli aspetti politici; qui però vogliamo sottolineare che il tentativo di uscire dalla crisi operando sulla flessibilità del lavoro non solo ha dei costi umani enormi, ma è anche votato quasi sicuramente al fallimento, come dimostrato da numerosi esempi storici, anche molto recenti.
7. Cosa fare dei lavoratori assunti con questo schema una volta finita l’emergenza? Nulla. Per definizione l’emergenza sarà finita solo quando il mercato e lo stato saranno in grado di garantire un livello soddisfacente di occupazione. Va inoltre ricordato che il tasso di occupazione (il rapporto tra numero di occupati e popolazione in età lavorativa) in Italia è di gran lunga tra i più bassi d’Europa (56,9% in Italia, 63,8% in Francia, 69,5% nel Regno Unito e 71,1% in Germania).
8. Cosa fare se l’iperinflazione o una durata eccezionalmente lunga della recessione dovessero ridurre la ricchezza patrimoniale mobiliare a un punto tale da rendere impossibile la tassazione richiesta da questo schema? BÈ, a quel punto avremmo ben altri problemi…
9. Due considerazioni generali. È bene affermare con tutta chiarezza che la politica economica non deve riguardare solo l’efficienza di un sistema, ma anche la sua equità, e non solo i redditi monetari ma anche il benessere complessivo delle persone. La politica economica deve quindi porsi il problema di come sostenere il reddito, le speranze e la qualità della vita dei soggetti che non possono procurarsi adeguatamente queste cose sul mercato. Il problema non è allora se aumentare l’occupazione pubblica è efficiente o no, ma di come fare a soddisfare quelle tre esigenze nel modo più efficiente. È chiaro che uno schema come quello proposto è superiore a un semplice sussidio di disoccupazione.
Infine, qualsiasi politica economica sensata deve partire da un confronto fra costi e benefici. Nel nostro caso è giusto sottolineare come sia impressionante lo scarto fra i sacrifici che sarebbero richiesti da una parte e i benefici che si otterrebbero dall’altra. I primi sarebbero minuscoli, i secondi enormi.
4. Alcune considerazioni politiche. Abbiamo visto che il trasferimento di somme quasi insignificanti per chi ne dovrebbe sopportare l’onere consentirebbe di raggiungere risultati molto ampi in termini di occupazione. Se si preferisce, che la creazione di un numero molto elevato di posti di lavoro in settori che vengono quasi unanimemente giudicati sottodimensionati costerebbe molto poco. Ciononostante questa ipotesi non viene presa in considerazione dalle forze politiche di governo, a dispetto del suo basso costo. Come mai? A nostro avviso il motivo non è il trasferimento di risorse richiesto dall’operazione (forse solo un fanatico tea partist potrebbe opporsi alla creazione di ottocentomila posti di lavoro utili a un costo così basso), ma la paura di dare allo Stato il compito di creare direttamente dei posti di lavoro. Infatti questa manovra implicherebbe un notevole cambiamento nel pensiero dominante: da un lato l’abbandono dell’idea che l’unico modo per risolvere la crisi è liberare le pure forze del mercato, dall’altro l’accettazione dell’idea che la soluzione della crisi passa per un maggiore e migliore intervento dello Stato. Anche se questa da sempre è stata una discriminante fra sinistra e destra, e pensiamo che sia bene che torni a esserlo, vogliamo sottolineare che la nostra proposta non ha nulla di estremista. Se essa fosse accettata, l’occupazione pubblica resterebbe comunque bassa rispetto agli standard dei paesi europei paragonabili all’Italia, e il trasferimento di reddito sarebbe comunque molto basso, assai meno dell’1% del PIL.