Salta il banco in una notte delle trattative di fusione tra Fca e Renault a causa del rialzo di richieste del governo francese ma anche per difficoltà con i partner giapponesi di Nissan per il mercato asiatico. Ora sia Fca che Renault sembrano morti che camminano e tutto può essere.
Molti decenni fa, pochi ormai lo ricordano, la Fiat aveva provato a comprare la francese Peugeot. Ma aveva poi dovuto recedere dalla transazione per l’opposizione del governo francese. Sono poi seguiti nel tempo altri tentativi di accordi, di tipo vario, ma tutti sono falliti; sembra operare in merito una vera maledizione.
Pur con questi precedenti, la notizia della notte tra il 5 e il 6 giugno che annunciava che la FCA si ritirava dall’ipotesi di fusione con la Renault a causa dell’atteggiamento dilatorio e troppo invadente del governo francese ha sorpreso molto tutti, a cominciare da chi scrive.
Il ritiro fa seguito al fatto che il consiglio di amministrazione della Renault aveva per la seconda volta rimandato la decisione sulla fusione, dopo che i due rappresentanti del governo e quello del sindacato CGT avevano votato contro l’intesa e, in particolare, avendo i consiglieri di nomina pubblica chiesto di rimandare di una settimana la risposta, per potere nel frattempo discutere della cosa con i giapponesi, i cui rappresentanti si erano invece astenuti nella votazione.
Curiosamente la stampa francese, almeno a giudicare dai primi commenti pubblicati da alcuni dei principali giornali, avallando la versione del governo, maschera in sostanza la vera sostanza della rottura, parlando solo del buon Bruno Le Maire, il ministro dell’Economia francese, che vuole assicurarsi che i giapponesi siano della partita.
Noi non conosciamo, naturalmente, tutti i risvolti della partita, ma ci sembra chiaro che in realtà la rottura è avvenuta su un altro fronte, che è quello del ruolo dei francesi nella fusione.
Eppure gli Agnelli avevano offerto l’accordo su un piatto d’argento. Prima, avevano accettato che l’amministratore delegato fosse francese e che i francesi avessero sei posti nel consiglio (contando il consigliere Nissan dalla parte dei francesi) contro i cinque della FCA, ma poi non si sono accontentati e hanno domandato in più: che la sede centrale della nuova casa d’auto si trovasse in Francia, che anche agli azionisti francesi, oltre a quelli della FCA, fosse riconosciuto un dividendo straordinario, cosa del tutto irragionevole visti i valori di mercato delle due società prima della fusione, poi che lo Stato francese avesse un rappresentante nel consiglio e non si sa ancora cosa (nel segreto dei corridoi deve essere accaduto anche qualcosa d’altro).
Ad un certo punto gli Agnelli hanno valutato che le pretese francesi non finivano più e hanno rotto l’intesa. Che, almeno in questo caso, gli italiani avessero ragione, è dimostrato anche dal fatto che i rappresentanti della stessa Renault abbiano preso le distanze dall’atteggiamento del governo dichiarando che l’operazione aveva una rilevante logica industriale e finanziaria. Può darsi che a questo punto il presidente della stessa Renault, Jean-Dominique Senard, che aveva promosso l’intesa insieme a John Elkann, annunci le sue dimissioni dall’incarico.
Bisogna comunque ricordare che in una situazione di questo tipo non si può escludere nessuna opzione, anche quella che i due contendenti tornino, alla fine, al tavolo delle trattative.
A questo punto, senza l’accordo, il gruppo FCA è come un morto che cammina e anche la Renault si trova in una situazione quasi uguale, salvo che ad essa rimane la ciambella di salvataggio giapponese.
La FCA è assente dall’Asia, mentre la parte Fiat non ha sostanzialmente modelli da proporre sul mercato europeo, dove, compresa l’Italia, continua a perdere quote di mercato considerando anche il marchio Jeep e si trova con un numero pletorico di stabilimenti, mentre non ha le risorse necessarie sia per far decollare il polo del lusso sia, ancora di più, per fare i grandi investimenti necessari nell’elettrico e nelle vetture autonome. Anzi, gli azionisti tendono in questo momento a portar via risorse dall’azienda, di solito un chiaro segnale di smobilitazione.
Solo i sindacati nostrani del settore sembrano ancora credere nel gruppo.
La Renault ha almeno la speranza di riuscire a ricucire con la Nissan, ma a questo punto sarebbero probabilmente i giapponesi, che si trovano in una migliore posizione della casa francese per numero delle vetture vendute, per livelli tecnologici, per presenza diffusa in Asia e negli Stati Uniti, oltre che in Europa, a dettare le regole.
Senza considerare la Nissan e la Mitsubishi, la casa francese produce ancora meno vetture della FCA e quindi anch’essa non ha i mezzi per investire adeguatamente nell’elettrico e nelle vetture autonome, è assente dal mercato statunitense e da quello asiatico, non ha modelli nella fascia del lusso e in quella dei Suv.
Alla FCA non resta che vendersi a qualcun altro e al più presto, ma il compito sembra difficile. Le case tedesche non sembrano essere interessate, con la PSA le trattative sono state a suo tempo rotte, ai cinesi non possono vendere per colpa di Trump, a meno che essi non si accontentino della sola parte Fiat, cosa poco probabile e molto complicata operativamente, anche se non impossibile. Non resterebbero apparentemente che i coreani della Hyundai Kia e forse la General Motors, anche se in quest’ultimo caso ci potrebbero essere problemi con l’Antitrust.
In ogni caso si prospettano tempi difficili per i lavoratori e per il sistema economico italiano, dal momento che, anche nelle condizioni in cui l’azienda è oggi ridotta, rappresenta ancora, con il suo indotto, la realtà industriale più importante del Paese.
Il caso ci ricorda, anche se solo per alcuni aspetti, quello della ipotizzata acquisizione da parte della Fincantieri della francese STX; le discussioni relative si protraggono ancora da molto tempo ed esse hanno visto i francesi rifiutarsi di cedere il controllo della società agli italiani (dopo che lo avevano invece fatto con i coreani), se non attraverso una via molto tortuosa e incerta sino in fondo, spingendo sempre per ottenere il massimo dall’interlocutore, che in quel caso, a nostro parere, si è dimostrato peraltro troppo docile.
Anche in questo caso, mentre i rappresentanti politici francesi provavano a battere con forza i pugni sul tavolo delle trattative e mentre Elkann doveva andare in visita con il cappello in mano da Macron, i rappresentanti italiani si sono segnalati solo per qualche timido e inoffensivo belato.
Abbiamo una ulteriore riprova di quanto sia difficile, se non impossibile, portare avanti dei progetti di integrazione industriale e finanziaria delle imprese nel nostro continente, uno dei tanti segni di una sua lenta deriva verso l’irrilevanza.
Intanto, in questi giorni, abbiamo un ulteriore segnale negativo nel settore, con la Ford che annuncia la chiusura di uno stabilimento di motori in Gran Bretagna, con la perdita di circa 1.700 posti di lavoro.
Quanti saranno quelli che si perderanno da noi?