L’ambasciatore è tornato a Roma ma la tensione Italia-Francia non si placherà. Oltre ai gilet gialli, al neocolonialismo in Africa, alle partecipazioni azionarie, all’origine c’è il dossier libico. Con un capitolo da 67 miliardi di dollari: il fondo sovrano LIA.
“Il colonialismo non è un tipo di relazioni individuali, ma la conquista di un territorio nazionale e l’oppressione di un popolo, tutto qui”, diceva Frantz Fanon alla fine degli anni cinquanta. Rispetto a quell’epoca lì, alla battaglia finale contro De Gaulle per la decolonizzazione dell’Algeria, il mondo è molto meno lineare. Il neocolonialismo che rispunta ovunque si mischia con nuovi grandi attori, non europei, sullo scacchiere, specialmente in Nord Africa e Medioriente, basti pensare alle potenze del Golfo, a Israele, alle aspirazioni neo imperiali di Putin e Erdogan. Eppure solo nominare il neocolonialismo francese in Africa oggi, senza per altro un’analisi attenta, ha innescato una frizione diplomatica rivelatrice del dito nell’occhio che significa un’accusa simile. E l’Italia allora?
Sono due i dossier incandescenti tra l’Italia e la Francia attualmente: le acquisizioni di Fincantieri nella cantieristica navale, sia civile che militare, e la Libia. E sicuramente la Libia è quello più rilevante per l’Italia, addirittura esiziale, lo mai può definire. La Libia, sottratta all’influenza francese da Giolitti nel 1911 quasi come ripicca per la perdita della Tunisia, pur devastata dagli strascichi infiniti della guerra scatenata dalla Francia esattamente un secolo dopo per annichilire il colonnello Muammar Gheddafi, non è più lo “scatolone di sabbia” di un tempo. La sua monocoltura di campi petroliferi è legata mani e piedi con l’Eni, l’unica multinazionale di cui l’Italia disponga sulla scena economica mondiale.
I rapporti tra l’Italia e la Libia nella storia moderna hanno attraversato due fasi: prima della seconda guerra mondiale e dopo gli anni cinquanta, nel periodo della decolonizzazione. Nella prima fase, dopo la guerra italo-turca contro gli ottomani sfociata poi nel primo conflitto mondiale l’Italia ha commesso in Libia crimini efferati, come riportato nei libri di Angelo Del Boca, durante i vent’anni di guerriglia anti-italiana dell’eroe cirenaico Omar al Mukhtar: confische manu militari, uccisioni di massa, campi di concentramento. La seconda fase è quella che inizia con l’ascesa al potere del Colonnello Muammar Gheddafi che con un colpo di Stato militare detronizza nel 1969 re Idris al Senussi, legato a doppio filo ai britannici e agli interessi della British Petroleum e della Shell.
L’Ente nazionale idrocarburi tramite le consociate Agip e Snam è già sul suolo libico da dieci anni e seguendo le direttive di Enrico Mattei concede al paese ospitante royalties molto più alte del cartello delle Sette sorelle, tra cui Bp e Shell), non fifty-fifty ma fino al 75% per i produttori locali. Gheddafi, che si dice istruito in una accademia militare ad Anzio, figlio di un muntaz, cioè di un ufficiale delle truppe coloniali italiane, da subito utilizza come richiamo ideologico per cementare l’orgoglio nazionale un sentimento ferocemente anti-italiano e anti-fascista, espellendo tutti gli italiani di Libia e sequestrandone le proprietà, ma al contempo salva dalle nazionalizzazioni la Fiat e l’Eni. Si può dire che in Libia si coroneranno post mortem i sogni di Mattei, morto e forse ucciso in un disastro aereo nel 1962. E Gheddafi, grazie all’afflusso dei petroldollari e da nuovi rapporti di forza dopo lo shock petrolifero del 1973, dota il Paese di infrastrutture e servizi, partecipando alle complesse vicende del capitalismo italiano, dalla stagione dei fondi neri e degli scandali al salvataggio della Fiat nel 1976. Unifica il Paese, reprimendo crudelmente il dissenso dei pochi, islamisti e non, che non si piegano alle magnifiche sorti della sua Jamahiriya e al suo Libro verde con il complice silenzio italiano.
“Non c’è alcun dubbio: l’Italia ha fondato la Libia moderna e Gheddafi era il miglior alleato dell’Italia, oltre che un elemento di stabilizzazione contribuendo a frenare le migrazioni dal Sahel”, ci dice Gianluca Podestà, professore di storia economica alla Bocconi ed esperto di colonialismo.
A ben vedere in realtà la Libia di Gheddafi è stata inizialmente – e in parte lo è ancora – prima di tutto un pull-factor, un magnete dei flussi migratori dall’Africa subsahariana, piuttosto che un push-factor, un gendarme per detenzioni e respingimenti di migranti per conto terzi, l’Italia e l’Europa. L’urbanizzazione di Tripoli, dove si è nei decenni trasferito a vivere circa un terzo della popolazione libica, gli impianti petroliferi e tutto l’indotto hanno attirato a lavorare e a vivere milioni di immigrati, soprattutto africani. È dai primi anni Duemila che Gheddafi si butta nel nuovo business della detenzione di immigrati illegali – cioè a discrezione tutti gli immigrati africani non arruolati nell’esercito della Jamahirya – costruendo hangar di raccolta a Kufra, Zuwara, Sebha, Ghat con il contributo finanziario dello Stato italiano, negli stessi luoghi e con condizioni non dissimili dalle attuali, come risulta da relazioni dell’Unhcr e delle organizzazioni internazionali dei diritti umani. Il business viene poi perfezionato nel trattato di cooperazione italo-libico firmato a Roma – con grande fasto di cammelli, attendamenti e “vergini” italiane ingaggiate come hostess – nell’agosto del 2008, da Gheddafi e da Silvio Berlusconi e ratificato nel 2009. Si tratta di un accordo bilaterale a vasto raggio, che prevede un partenariato militare, impegni alla non aggressione reciproca anche in parziale deroga al Patto atlantico, ingenti investimenti nell’arco di un ventennio oltre a una nuova consistente quota di indennizzi per l’occupazione coloniale.
In quegli anni però il Colonnello gioca una partita doppia, e se fa mostra di avere in mano un potere ricattatorio notevole minacciando di riaprire le rotte delle migrazioni verso l’Italia, in Francia manda emissari con valigette di banconote – almeno 50 milioni di euro secondo quanto scoperto dal sito d’inchiesta Mediapart nel 2013 – per finanziare la campagna elettorale di Nicolas Sarkozy. Nel 2011 con il pretesto di aiutare gli insorti della Cirenaica duramente repressi dal regime, la Francia di Sarkozy che ha già perso il suo cavallo Ben Alì cacciato dalla Tunisia, insieme alla Gran Bretagna, trascina l’Italia obtorto collo e gli Stati Uniti a invadere e bombardare la Libia. Secondo il generale Vincenzo Camporini, all’epoca capo di Stato maggiore alla Difesa, quella fu “una guerra della Francia contro l’Italia per interposta Libia” e “l’Italia fu costretta a partecipare ai raid per evitare che fossero bombardati gli impianti dell’Eni”, che in effetti furono salvaguardati e funziona tuttora a pieno regime.
Tolto di mezzo Muammar Gheddafi, negli ultimi anni le rivalità tra Italia e Francia in Libia sono rimaste legate alle due autorità rivali, Tripoli e Tobruk vicino Bengasi, con Roma ancorata al premier di Tripoli Fayez Serraj ( e la sua Guardia costiera) e Parigi disposta ad appoggiare il generale cirenaico Khalifa Belqasim Haftar.
Nel settembre di due anni fa l’inviato speciale Onu, il franco-libanese Ghassam Salameh, ha annunciato un piano di azione per la stabilizzazione della Libia che dovrebbe comportare una modifica costituzionale, un referendum confermativo della nuova Carta e finalmente la convocazione di elezioni generali “libere e sicure” oltre a un pacchetto di riforme economiche volte a modificare il sistema dei cambi valutari su cui lucrano le milizie private e ad eliminare i sussidi statali sui carburante accaparrati dai contrabbandieri. Questo processo, di cui era parte anche la conferenza di Palermo del 12 e 13 novembre scorsi, appare però al momento impantanato con una riesplosione delle sparatorie tra milizie facenti capo al governo a Tripoli e un’intensa attività militare del generale Haftar a Sebha, ai confini con il Niger e sulle rotte dei migranti attraverso il deserto, malvista dai vertici missione Onu (Unsmil). Negli ultimi giorni si nota anche un intenso attivismo di Egitto, Emirati e della nuova ambasciatrice francese Béatrice Le Frapper du Hellen, prima di stanza a Malta, che si è impegnata a riaprire la sede diplomatica a Tripoli entro primavera mentre il nuovo ambasciatore italiano Giovanni Buccino Grimaldi è atteso da settimane.
I libici in tutto ciò sono sempre più esacerbati dal protrarsi del conflitto e dalle condizioni di vita sempre peggiori. In base a una consultazione condotta da una fantomatica ong chiamata Centro per il dialogo umanitario per conto della missione Unsmil realizzata con 77 incontri partecipati da 7 mila libici, in maggioranza donne, oltre che sui social network e attraverso questionari soprattutto tra intellettuali, professori e professionisti della classe media urbana, la popolazione ritiene che non si riesca a raggiungere la pace solo e unicamente per le interferenze delle potenze straniere. Intrighi politici, corruzione dei doganieri e dei funzionari, sparatorie tra milizie servirebbero solo a perpetrare lo status quo, a tutto vantaggio degli interessi esteri. Con un saccheggio sistematico delle risorse nazionali incorporate nelle tre istituzioni rimaste dal fallimento statale: Banca centrale, la compagnia statale petrolifera Noc, e il fondo sovrano creato da Gheddafi (Lia) da 67 miliardi di dollari, congelato dall’Onu con la guerra ma su cui cercano di speculare da JpMorgan a Goldman Sachs e Société Generale. Ma una causa è stata intentata anche in Belgio. Perché il neocolonialismo oggi non marcia solo nei tubi delle pipeline ma si muove anche sui mercati finanziari.