È uscito il rapporto State of power 2015, a cura del Transnational Institute. Una radiografia dei poteri e dei movimenti che vi si oppongono. Il Rapporto di quest’ anno (disponibile online all’indirizzo: http://www.tni.org/stateofpower2015) è stato per la prima volta redatto aprendosi ai contributi esterni selezionati attraverso un apposita Call for Papers.
È uscito il rapporto State of power 2015, a cura del Transnational Institute. Una radiografia dei poteri e dei movimenti che vi si oppongono
Riconfermando una tradizione ormai consolidata, il Transnational Institute – parte dell’Economic Justice Program – ha, anche quest’anno pubblicato il proprio “State of Power”, Rapporto Annuale sui poteri – e sui movimenti che vi si oppongono in giro per il mondo – facendolo uscire in coincidenza con il World Economic Forum appena conclusosi a Davos. L’introduzione, prende in prestito un espressione cara a Susan George – spesso ospite di Sbilanciamoci!- e presenta il rapporto come una sorta di radiografia del potere, delle sue articolazioni e dei movimenti ad esso antagonisti effettuata mentre i suoi massimi rappresentanti, la “Davos Class” appunto, mettono in cantiere accordi e strategie per l’immediato futuro.
Il Rapporto di quest’ anno (disponibile online all’indirizzo: http://www.tni.org/stateofpower2015) è stato per la prima volta redatto aprendosi ai contributi esterni selezionati attraverso un apposita Call for Papers. Questo rende l’edizione del 2015 particolarmente ricca e variegata sia dal punto di vista degli argomenti trattati che dei paesi interessati dalle analisi. Gli argomenti affrontati vanno dall’influenza delle multinazionali e delle grandi banche sulle decisioni politiche di governi e parlamenti alle tematiche ambientali come gli effetti delle strategie dei grandi attori del settore minerario, petrolifero o dell’agricoltura. A far da contraltare, numerosi contributi descrivono la natura e l’evoluzione di movimenti sociali che tali dinamiche di potere tentano di sfidare, dal Messico al Mozambico, dal Canada all’Italia ed alla Grecia.
Entrando nel merito di un tema di assoluta centralità, Juan Hernández Zubizarreta propone una disamina dei meccanismi attraverso cui le grandi multinazionali sono capaci di costruirsi efficientissime cornici legali per lo sviluppo delle loro strategie di sviluppo imprenditoriale. Strumenti come il TTIP, con le implicazioni legali che essi sono in grado di produrre sia a livello nazionale che sovranazionale, sono messi in luce nella loro pericolosità enfatizzandone inoltre le caratteristiche giuridiche che ricorrono costantemente in questo tipo di trattati.
Judith Marshall, in un contributo per certi versi complementare al precedente descrive come la capacità d’agire delle imprese multinazionali trova una linfa fondamentale nella assoluta permeabilità che i sistemi democratici contemporanei hanno di fronte a tali mastodontici interessi economici. Nell’analisi proposta dalla Marshall, tuttavia, emerge anche un interessante esempio portatore di speranza per la capacità di riappropriazione degli spazi democratici da parte dei cittadini. Il coordinamento internazionale dei cittadini colpiti in vario modo dall’attività della multinazionale mineraria “Vale” rappresenta, infatti, un esempio virtuoso di contropotere coordinato tra più paesi ed accomunato dalla resistenza nei confronti di un unico centro di interesse economico, in questo caso, un colosso del settore minerario.
Il tema della capacità delle grandi imprese bancarie di catturare gli attori politici è ampiamente trattato nell’edizione di quest’anno del Rapporto. Manolis Kalaitzake mette in evidenza la capacità della lobby finanziaria europea di condizionare, ottenendo per se un ambiente fiscale più che mai favorevole, il processo legislativo a Bruxelles. Sasha Breger Bush descrive il modo in cui l’attività di lobbying delle grandi banche sia capace di influenzare la vita di ciascuno, in particolare rispetto alle decisioni di consumo delle famiglie. Da questo punto di vista, l’autrice identifica una serie di meccanismi di resistenza tra cui l’abbandono dei circuiti di consumo legati alla grande distribuzione globale, una regolamentazione fortemente restrittiva del settore finanziario o vere e proprie campagne di boicottaggio.
L’intreccio della dimensione ideologica e di quella economica del neoliberismo è affrontata da Michael Perelman mettendo sotto osservazione, in particolar modo, il ruolo particolarmente nefasto svolto da alcuni economisti. In questo quadro, il conflitto tra capitale e lavoro, nelle articolazioni proprie dell’attuale stadio di sviluppo del sistema capitalistico, è analizzato da Lorenzo Zamponi e Markos Vogiatzoglou. Offrendo uno squarcio dell’esperienza italiana e di quella greca, entrambi i contributi disegnano i tratti fondamentali dei movimenti che hanno tentato di organizzare il conflitto coinvolgendo le componenti precarie e maggiormente marginalizzate della forza lavoro. La capacità di coordinare queste esperienze di movimento conflittuale ed autorganizzato, le necessità di legarle, altresì, a realtà più organizzate e strutturate sono identificati come elementi chiave per la sopravvivenza ed il rafforzamento di queste stesse esperienze.
Gli ultimi due contributi contenuti nel Rapporto toccano due temi altrettanto fondamentali. Nel primo caso, Richard Hill propone un analisi di come le nuove tecnologie – centrali sono quelle connesse alla gestione dell’informazione e delle comunicazioni – si stiano rivelando, in molti casi, potenti strumenti di controllo e restrizione degli spazi di libertà. Nel secondo ed ultimo caso, Sebastian Scholl tenta di fare luce sulla drammatica ed intricata vicenda degli studenti recentemente “scomparsi” in Messico.
Anche nel 2015, dunque, il rapporto “State of Power” si rivela un compendio di importanti elementi conoscitivi rispetto a quelli che sono i sommovimenti del potere ma anche del magma popolare che, con varie articolazioni, tenta di contrapporsi.