Il problema dell’Italia è il debito pubblico. E’ stupefacente quanto poco ci si domandi per cosa si stia indebitando. Il problema sono gli interessi. Allora perchè non tornare al “Padre Plan”?
Il problema dell’Italia è il debito pubblico. Non è nemmeno un argomento su cui discutere, ma un assunto evidente. Posto che il debito pubblico è eccessivo e ci strangola, ragioniamo pure di quali siano le strategie più efficaci per ridurlo il più velocemente possibile. Ma è davvero così, o è forse necessario fare un passo indietro?
Più che l’ammontare del debito pubblico, il faro che guida ogni scelta di politica economica è il rapporto tra debito e PIL. Cerchiamo di capire perché con un esempio semplificato. Ho un debito di 20.000 euro. E’ tanto o poco? Dipende. Se sono disoccupato e nullatenente, è enorme. Se guadagno un milione di euro l’anno, sono spiccioli o poco più. In altre parole, il valore di un debito va riportato a quanto si guadagna. L’esempio è forse fuorviante, anzi troppo spesso si sente dire che uno Stato dovrebbe comportarsi “come un buon padre di famiglia”, mentre la contabilità e gli obiettivi di una famiglia, un’impresa e una nazione sono completamente diversi. L’idea è comunque di misurare il debito in rapporto alla ricchezza prodotta per capirne la sostenibilità.
Anche qui sono però necessarie alcune precisazioni, soprattutto considerando quanto il rapporto debito/PIL definisca le politiche europee e italiane. Se dobbiamo accettare l’austerità, se il mantra degli ultimi anni è che “non ci sono i soldi”, se dobbiamo tagliare su servizi pubblici, pensioni o sanità, il problema è uno solo: dobbiamo ridurre il rapporto debito/PIL, e dobbiamo farlo a marce forzate. Il fiscal compact prevede di rientrare in 20 anni al famigerato 60%, mentre l’Italia viaggia oltre il 130%. Il rapporto debito/PIL è il cardine attorno al quale devono girare le politiche di uno Stato sovrano: possiamo rimettere in discussione il welfare, i diritti conquistati in decenni di lotte, l’erogazione dei servizi di base, ma non un rapporto scolpito nella pietra. Una verità assoluta e immutabile, mentre i diritti fondamentali diventano variabili su cui giocare per rispettarla.
Cerchiamo allora di capire se questo rapporto sia davvero l’unico parametro da prendere in considerazione. Con i limiti ricordati in precedenza, torniamo a un esempio semplificato. Guadagnate 20.000 euro l’anno, e avete un debito di 20.000 euro con vostro fratello, che non vuole nessun interesse e non ha fissato nessuna scadenza. Seconda situazione. Guadagnate sempre 20.000 euro l’anno, e avete un debito di 10.000 euro, ma è ora un debito di gioco, contratto con un pericoloso strozzino che vi chiede interessi del 30% al mese, arrivando a minacciarvi se sgarrate di un solo giorno. Il rapporto tra debito e ricchezza annuale è ora al 50%, la metà rispetto all’esempio precedente. In quale delle due situazioni preferireste però trovarvi? L’esempio – ripetiamo nuovamente, estremamente semplificato e persino inesatto se riportato tout court a uno Stato – può chiarire come né l’ammontare del debito né il suo rapporto alla ricchezza prodotta siano gli unici elementi da considerare. Sono almeno altrettanto importanti altri fattori: quanti interessi paghiamo, la scadenza, a chi lo dobbiamo e altri ancora.
E’ stupefacente quanto poco ci si domandi – tra statistiche, impegni e dichiarazioni onnipresenti sulla riduzione del debito – per cosa lo Stato si stia indebitando. Torniamo ancora all’esempio semplificato. Ho un contratto a tempo indeterminato da 20.000 euro l’anno. Vado in banca e chiedo un mutuo da 200.000 euro, a 30 anni, per l’acquisto della casa. Qualsiasi banca concederebbe tranquillamente un tale prestito. Eppure il rapporto tra debito e guadagni annui è del 1.000%. Secondo caso. Guadagno sempre 20.000 euro l’anno, e ne prendo in prestito 10.000 per andarmeli a giocare al casinò. Il rapporto debito / reddito è ora piuttosto contenuto, al 50%, ma chi considererebbe questa un’operazione saggia? Il “buon padre di famiglia” è quello che si indebita poco, o quello che usa bene le risorse a disposizione, mentre sia l’importo sia il rapporto tra debito e reddito annuo sono del tutto secondari?
Torniamo ora al caso Italia, e al suo debito per definizione “eccessivo”. E’ incredibile che nelle discussioni su austerità, fiscal compact e dintorni ci sia così poco spazio riservato al merito della questione. Il problema è il rapporto debito / PIL o come viene usata la spesa pubblica? Se al di là degli slogan e dei dogmi volessimo entrare nel merito, forse bisognerebbe partire da alcune domande:
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perché dalla metà degli anni ‘90 al 2008 – senza austerità e senza fiscal compact – il rapporto debito / PIL è quasi costantemente sceso, passando da oltre il 120% al 103%?
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Perché solo dopo il 2008 – tra l’altro proprio durante l’applicazione delle politiche di austerità – si è impennato arrivando a superare il 130%?
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A cosa serve il debito pubblico, o, in altre parole, dove vanno a finire i soldi del debito? Com’è possibile che l’Italia per 20 anni abbia sempre avuto – con l’eccezione di un solo anno – un avanzo primario (ovvero più entrate che uscite al netto degli interessi sul debito), ma non veniamo fuori dalla spirale del debito?
Quest’ultimo punto in particolare è centrale. Lo Stato italiano ogni anno incassa più di quanto spende. Approssimando, da almeno venti anni tasse e imposte superiori ai servizi erogati, alla faccia dei ritornelli sullo “Stato spendaccione” e secondo cui “viviamo al di sopra delle nostre possibilità”. Se il rapporto debito / PIL continua a crescere, i motivi sono essenzialmente due. Il primo è l’ammontare degli interessi che paghiamo ogni anno sul debito. Realizziamo avanzi primari (saldo tra entrate e uscite), ma andiamo comunque in deficit a causa della spesa per interessi. Il secondo motivo è che nel rapporto debito / PIL non conta solo il numeratore, ma anche il denominatore. Se il PIL non cresce (o diminuisce come avvenuto negli scorsi anni), sono guai.
Se questa è l’analisi, le soluzioni che ci hanno imposto funzionano? La risposta è semplice: no. L’austerità e i tagli alla spesa pubblica non fanno calare la spesa per interessi, se non in maniera forse indiretta – i sostenitori dell’austerità insistono sull’argomento secondo cui i mercati finanziari si fiderebbero più di noi se tagliassimo la spesa pubblica, permettendoci di finanziarci a tassi più bassi. Altri studi indicano come in realtà l’effetto dell’austerità sul debito/PIL sia opposto. E non sembrano essere studi di parte, anzi. Negli scorsi anni una ricerca del FMI chiariva come, per la maggior parte delle economie occidentali, l’austerità provocava una caduta del PIL superiore a quella del debito, ovvero un rapporto debito/PIL che continuava ad aumentare. Secondo alcuni quotidiani statunitensi un “clamoroso mea culpa” al quale non sono però seguite revisioni delle politiche economiche. Con l’austerità parliamo quindi di ricadute sul rapporto debito / PIL incerte e tutte da verificare, a fronte di impatti sociali e in termini di diseguaglianze immediati e decisamente pesanti.
Sarebbero allora possibili strade alternative? Sicuramente si. Alcuni anni fa due economisti hanno avanzato una proposta nota come “Padre Plan”, che prendeva di mira non l’ammontare del debito, ma la spesa per interessi. Semplificando al massimo, prevedeva che la Banca Centrale Europea scambiasse titoli di Stato dei diversi governi europei con titoli a zero interessi e senza scadenza. Tornando all’esempio precedente, ho un debito con uno strozzino, a tassi di interesse e scadenze che mi stanno massacrando. Mio fratello mi presta i soldi per estinguerlo. Il debito ora ce l’ho con lui, ma è senza scadenza e senza interessi. Mi impegno a restituirglielo poco per volta. Fuor di metafora, invece che essere indebitati con i mercati finanziari, sotto la scure dello spread, del giudizio dell’oligopolio delle agenzie di rating e succube della speculazione finanziaria, mi indebito a tasso zero e senza scadenza con una banca centrale, impegnandomi a diminuire questo debito con tempi “umani” e non con quelli assolutamente folli dettati dal fiscal compact.
La principale obiezione dei “rigoristi” contro questa o analoghe soluzioni, è che senza pressioni “non faremmo i compiti”. Italiani fannulloni che devono essere costretti dal famigerato vincolo esterno (in questo caso l’UE e i suoi diktat) perché per nostra natura siamo deboli e corrotti. Nel merito, venti anni di avanzo primario, e una costante diminuzione del rapporto debito/PIL tra il 1995 e il 2008 mostrano la fallacia di un tale argomento. Come detto sono proprio gli interessi sul debito e l’austerità a trascinarci a fondo. Ancora prima, è del tutto inaccettabile l’impianto teorico che nuovamente pone parametri economici arbitrari come obiettivi in sé e diritti fondamentali dei cittadini come variabili su cui giocare. Il debito come arma, spread e minacce come strumenti per smantellare welfare e conquiste del lavoro.
In ultimo, anche volendo dare credito alla necessità di “fare i compiti”, il Padre Plan non prevedeva un intervento della BCE per scambiare l’intero debito pubblico. Potrebbe essere la parte eccedente il famigerato 60% o anche meno. Si tratterebbe comunque di una boccata di ossigeno da decine di miliardi di euro l’anno per lo Stato italiano, che eventualmente potrebbe continuare a finanziarsi sui mercati (a tassi inferiori, avendo conti pubblici migliorati) per la parte rimanente.
Liberare risorse dalla spesa per interessi significherebbe avere un margine di manovra per investimenti pubblici che potrebbero trainare una crescita del PIL, con conseguente riduzione proprio del rapporto tra debito e PIL. Anche qui il ritornello sulla “spesa pubblica improduttiva” è una foglia di fico che non può nascondere scelte puramente ideologiche. Innumerevoli studi mostrano come un euro di investimenti pubblici ben indirizzati possa generare diversi euro di aumento del PIL. La stessa idea di “spesa improduttiva” dovrebbe indicare ben altro. Di fatto, dal punto di vista dei conti pubblici l’unica spesa pubblica realmente improduttiva è proprio quella per interessi (in particolare per quelli pagati ai detentori esteri di titoli di Stato).
Parliamo di investimenti nella ricerca, nel welfare, nella mobilità sostenibile, nella transizione energetica, per creare buona occupazione. Per l’ennesima volta, non è possibile che non vengano fatti perché gli obiettivi sociali e ambientali vengono subordinati al rispetto di parametri economici del tutto arbitrari e a dogmi ideologici fallimentari. La questione del debito va affrontata dal punto di vista qualitativo, non quantitativo. Cosa si fa con la spesa pubblica molto prima di quanta se ne fa. La semplice realtà è che oggi servirebbe più debito pubblico. Primo perché questi investimenti sono tanto urgenti quanto necessari; secondo perché le decisioni sul debito devono essere funzionali a obiettivi sociali, occupazionali, ambientali, non viceversa; terzo perché l’ammontare del debito non è il parametro su cui basare le politiche economiche, così come non lo è il rapporto debito/PIL.
Dopo decenni di retorica a senso unico, troppo spesso anche a sinistra sembra però impossibile rimettere in discussione determinati assunti, a partire dal fatto che il debito pubblico è eccessivo. Se vogliamo cambiare strada, serve però il coraggio e la lungimiranza per ripensare le stesse fondamenta dell’attuale fallimentare modello, e aprire spazi di dibattito e riflessione. Il debito non è una questione economica, è una questione politica. L’anno prossimo si vota per il rinnovo del Parlamento europeo. Abbiamo un anno di tempo. Un anno per costruire un percorso e delle proposte forti, che possono sembrare oggi provocazioni ma che permetterebbero il necessario e radicale cambio di rotta in UE. E’ ora che la democrazia riaffermi il proprio primato sulla finanza, se ancora è in grado di farlo. Vogliamo provarci?