Raggiunto l’accordo: non sarà inserito nei trattati europei, ma emanato con una direttiva. L’ennesima prova che questa Europa non è riformabile e che si usa ogni scappatoia per restringere di spazi di democrazia
Tanti titoli e titoloni sulla Brexit, che a noi in fondo cambia poco, e assenza quasi assoluta di dibattito sulla riforma dell’Europa, di importanza determinante per il nostro futuro. Siamo davvero un paese molto strano. E’ stato appena raggiunto un accordo sul Fiscal compact, il famigerato trattato intergovernativo che ci impone di attuare politiche restrittive di qui all’eternità, e si fatica a trovarne notizia sui media (una delle pochissime eccezioni è l’Huffington post). Iniziative di discussione finora quasi zero, giusto un convegno della Cgil un paio di settimane fa.
A rompere il silenzio prova ora un gruppo di intellettuali, per lo più economisti, che ha lanciato un appello invitando alla discussione e formulando alcune proposte. Il testo completo e i nomi dei promotori (tra cui il sottoscritto) si trova su questo sito e sulle riviste Economia e politica e Keynesblog.
Come era previsto al momento in cui l’accordo fu stipulato, nel 2012, dopo cinque anni – cioè ora – si doveva decidere se inserire il Fiscal compact nei Trattati. Questo avrebbe richiesto un’approvazione all’unanimità di tutti i paesi membri, ed evidentemente non si è voluto correre il rischio. Così si è deciso di emanarlo con una direttiva europea. Qual è la differenza? Bisogna vedere che tipo di direttiva sarà: di norma queste decisioni devono essere recepite nella legislazione dei vari Stati, e in Italia ciò avviene tramite una legge ordinaria; ma c’è anche un tipo di direttiva self-executing, ossia che non ha bisogno della procedura di recepimento ed è immediatamente efficace. Se l’intenzione è quella di evitare rischi di passaggi parlamentari, è molto probabile che sarà scelta questa strada: hai visto mai che le procedure democratiche dovessero giocare qualche brutto scherzo…
Se questo è ciò che avverrà ne possiamo trarre due conclusioni. La prima è che chi pensa che i Trattati europei possano essere riformati si illude. La regola dell’unanimità lo rende praticamente impossibile, cosa di cui si sono già avute numerose prove. I Trattati, dunque, quelli sono e quelli resteranno, sognare “un’altra Europa” è del tutto irrealistico. La seconda è che, consci di questo fatto, i governi e le tecnocrazie europee procedono evitando in tutti i modi possibili di consultare i cittadini, perché sanno che nemmeno con le loro massicce dosi di propaganda riuscirebbero ad ottenere maggioranze che approvino i loro disegni. La democrazia scivola sempre più verso l’oligarchia, e aumenta il rischio che l’opposizione a queste politiche sfoci in un sempre maggiore consenso a partiti populisti che, se riuscissero a conquistare il potere, svelerebbero la loro natura ancora più antidemocratica.
L’appello di cui si è detto avanza alcune proposte sulla governance europea. Che non si consideri la spesa per investimenti ai fini del calcolo del deficit, innanzitutto; poi che si riveda la procedura di calcolo del Pil potenziale, inadeguata e inattendibile, ma in base alla quale la Commissione giudica le variabili di finanza pubblica dei vari paesi e chiede correzioni; ancora, che si prenda atto che il 60% del rapporto debito/Pil era il dato medio quando questo parametro fu stabilito, ma oggi la media è al 90% (sempre meno che in Usa e Giappone), e sarebbe irragionevole mantenere fermo quell’obiettivo; infine, che l’obiettivo delle massima occupazione sia inserito nello statuto della Bce alla pari con quello della stabilità dei prezzi, com’è per l’americana Fed.
Quando si sottoscrive un documento collettivo è praticamente impossibile che ognuno dei firmatari sia completamente d’accordo con tutto quello che vi si dice. Personalmente ho aderito soprattutto perché mi sembrava davvero di grande importanza che si discutesse di questi problemi. Inspiegabilmente assenti dal dibattito pubblico mentre si prendono decisioni che disegnano il nostro futuro.
Di sicuro, per esempio, non ritengo che cambiare il metodo di calcolo del Pil potenziale sia una soluzione adeguata. Per tener conto del ciclo economico basterebbe stabilire che, in caso di Pil negativo, la successiva legge di bilancio possa essere espansiva in modo proporzionato alla contrazione dell’attività economica, evidentemente anche in deroga alle regole stabilite per la finanza pubblica, che dovrebbero comunque avere un valore indicativo e non cogente. Poi avrei almeno accennato ad altri aspetti della riforma in discussione, per esempio riguardo al futuro Fondo salva-Stati che dovrebbe trasformarsi in Fondo monetario europeo. Uno strumento del genere può funzionare se deve occuparsi di piccoli Stati, ma se la speculazione a un certo momento attaccasse l’Italia o la Francia una sola istituzione sarebbe in grado di contrastarla, ossia la Bce, che dovrebbe poter intervenire in modo illimitato anche in aiuto di un singolo paese, senza che questo comporti condizioni-capestro.
Ma queste sarebbero comunque misure per la sopravvivenza immediata, utili a far sì che la nostra situazione non si aggravi ulteriormente, come purtroppo certamente avverrà, visti gli orientamenti del nostro governo. Come linea generale, non dovremmo assolutamente fare altri passi che ci vincolino ancor di più a questa Europa, dalla quale dovremmo invece cercare di acquisire tutti i possibili gradi di libertà. Chi ha pensato che l’Italia fosse incapace di governarsi, e fosse dunque opportuno vincolarci in modo da farci governare dagli altri (il famoso “vincolo esterno”), non ha capito un aspetto fondamentale: gli “altri” non ti governano facendo i tuoi interessi, ma i propri. Per chi ci sta legando sempre più a questa Europa della “democrazia quando si può” non andrà comunque male, le élites restano sempre a galla. Gli altri faranno bene a studiare prima di tutto le lingue.
(pubblicato su Repubblica.it il 9 dic 2017)