Come e perché l’età globale ha compromesso le condizioni d’esistenza di una classe dirigente in senso proprio. Un estratto dal libro ‘Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale’
Quali sono le nuove forme di dominio dei gruppi transnazionali di interesse privato? […] Da anni echeggia il refrain secondo cui i soggetti privati transnazionali avrebbero ormai acquisito un potere paragonabile o addirittura superiore a quello di molti Stati. In grado di ricattare i governi, le corporations sono considerate alla stregua di veri e propri enti sovrani[1], in una trama istituzionale sfaccettata, entro la quale la capacità di controllo degli Stati è sfidata anche dalla presenza di regimi regolatori globali e di organizzazioni sovrannazionali di vario genere, governativo e non. […]
Ma in che cosa consistono, effettivamente, gli elementi di potere, di influenza e di dominio delle corporations? La risposta non è scontata, se è vero che spesso, nel formularla, si ricorre a una serie di cifre che testimoniano null’altro che la forza economica. Si assume come valida misura della potenza delle global companies il confronto tra il loro fatturato annuo e i bilanci degli Stati: nel 2014 la prima azienda privata si sarebbe posizionata al ventiseiesimo posto nella classifica degli Stati più ricchi al mondo, prima di un paese come l’Argentina; e al ventisettesimo posto, prima dell’Austria, si sarebbero posizionate le altre prime quattro grandi imprese elencate dalla rivista «Fortune» (tutte aziende petrolifere, due cinesi). Insomma, solo le più grandi e influenti potenze statuali del mondo possono rivaleggiare con le global companies sul terreno economico. Ma questi numeri, pur significativi, non dicono nulla sulle modalità di potere, influenza e dominio. È opportuno, dunque, isolare tre aspetti del potere esercitato dai vari “giganti transnazionali”: strumentale, discorsivo e strutturale[2]. […]
L’odierno potere delle grandi imprese transnazionali si manifesta e rafforza innanzitutto in termini strumentali, asservendo le istituzioni pubbliche a interessi privati. E quando si parla di potere strumentale, la pratica cui la mente ricorre veloce è il lobbying: un’attività volta a condizionare le politiche pubbliche, favorendo determinati interessi a scapito di altri, soprattutto in tema di diritto societario, diritto del lavoro e diritto tributario. […]
Il potere culturale delle grandi imprese nel contesto del capitalismo globale ha un nome piuttosto preciso: quello […] del neoliberalismo. È questa la parola chiave per definire la cultura preminente dell’età globale, ovvero di quella fase della storia mondiale che prende avvio con il crollo delle regole di Bretton Woods e perdura ancora oggi. […]
Ma ciò che rende dominanti i gruppi di interesse privato transnazionale è il potere strutturale, legato alla spropositata asimmetria tra il carattere territoriale degli Stati e il carattere deterritorializzato dei grandi conglomerati economici che, facendo leva sulle proprie risorse, influenzano pesantemente le regole stabilite dalla politica.
La prima forma del potere in questione riguarda i grandi potentati finanziari e si esprime nel giudizio che costoro forniscono sulla condizione economica degli Stati. Tale forma di potere, esercitata attraverso le agenzie di rating, finisce in qualche modo per occupare il luogo stesso della sovranità[3]. […] Infatti, il principio su cui questa si erigeva era la presenza di un territorio statale nettamente confinato. Ma se nell’età globale la separazione tra ‘dentro’ e ‘fuori’ risulta quanto mai appannata, è anche perché le agenzie di rating – attori esterni, rappresentanti null’altro che la sommatoria di interessi economici sparsi in tutto il mondo – incidono profondamente sulle decisioni degli Stati. E vi riescono in quanto mandatari di un potere finanziario che appare, nelle parole di Alessandro Ferrara, come «una nuova specie di potere assoluto, cresciuto all’ombra di regimi democratici dediti ai valori della libertà e dell’eguaglianza e dello stato di diritto»[4]. La prima forma di potere strutturale può essere in effetti considerata come una forma di potere rigorosamente assoluto, nel senso che riesce a modificare, senza subire un effetto reciproco, le decisioni che sostanziano l’esercizio della sovranità politica all’interno di un determinato territorio.
La parola chiave, da questo punto di vista, è per l’appunto rating. Com’è noto, si tratta della valutazione del merito creditizio delle economie nazionali, ovvero di una stima del rischio che lo Stato debitore, per varie ragioni, non sia in grado di rimborsare puntualmente il credito garantitogli dagli investitori. E la crescente rilevanza di questa procedura è segnalata bene dal modo in cui si suole chiamare il rating relativo ai titoli di Stato: rating sovrano. Come se la valutazione di rischio dei titoli obbligazionari emessi dagli Stati diventasse essa stessa sovrana, violando proprio quella separazione tra ‘dentro’ e ‘fuori’ su cui si edificava l’ordine politico moderno. Perché nonostante i rating siano, in teoria, semplici opinioni e non voti certificati, di fatto, negli ultimi decenni, hanno finito per influenzare e, talvolta, distorcere il mercato finanziario.
Si è creata una situazione di predominio, aggravata dal fatto che i rating sono ormai appannaggio di un ristretto oligopolio di agenzie private, controllate da capitali di imprese finanziarie transnazionali e da fondi speculativi. E il fatto che il volume d’affari abbia superato i 4 miliardi di dollari (tra assegnazioni di rating, consulenze finanziarie e servizi) non ha impedito che il settore si concentrasse fino all’attuale predominio delle “tre sorelle”, Standard & Poor’s, Fitch e Moody’s, capaci di acquisire decine e decine di società minori. Insomma, il cosiddetto “giudizio dei mercati” rappresenta una minaccia ben più preoccupante rispetto a quella costituita dai faticosi colloqui in cui consiste il lobbying, ma rappresenta soprattutto un’ulteriore limitazione del principio di sovranità che caratterizzava lo Stato moderno.
La seconda forma di potere strutturale viene esercitata dalle grandi imprese e consiste nella pratica di regime shopping: un’espressione che si riferisce alla possibilità delle aziende di indirizzare i propri investimenti verso paesi nei quali il costo e il diritto del lavoro, le infrastrutture materiali e immateriali, i prelievi fiscali e la protezione dell’ambiente siano più convenienti. Svincolate dai singoli territori e capaci di grande mobilità, le global companies hanno così guadagnato un notevole potere di condizionamento sugli Stati, che non sono più la loro patria obbligata, ma solo una delle possibili mete di investimento. Ed è questa nuova condizione strutturale a consentire loro di ottenere maggiori tassi di profitto a fronte di un impegno anche piuttosto scarso nelle innovazioni tecnologica, merceologica o strategica.
A onor del vero, il legame delle imprese con i paesi d’origine non è mai stato irrecidibile. Il mercato è da sempre un potenziale non-luogo, ma non c’è dubbio che lo sviluppo tecnologico abbia permesso un incremento straordinario della mobilità del capitale e della connettività della produzione. Al punto che il regime shopping è diventato un problema endemico.
Le conseguenze si riflettono non solo e non tanto nella contrapposizione tra imprese globali e Stati nazionali, tale per cui le prime cercano i modi per sottrarsi ai secondi e questi tentano di ampliare le proprie dimensioni per tenerle sotto controllo. Il rilievo del regime shopping dipende innanzitutto dalla sua capacità di produrre un superamento dello schema centro-periferia, cioè della struttura tipica del sistema-mondo moderno. Le disuguaglianze tra le varie aree del mondo restano ampie ed estremamente rilevanti, ma la peculiarità dell’età globale è che le nuove disuguaglianze non si articolano più secondo una gerarchia geografica a livello mondiale, bensì intorno a rapporti asimmetrici all’interno di ciascun paese[5].
E venendo al terzo e ultimo aspetto del potere strutturale, ci troviamo di fronte a uno dei risvolti più oscuri dell’attuale fase di globalizzazione economica: la quotidiana sottrazione di una colossale massa di denaro alla tassazione statale, anche nelle nazioni più ricche, e il suo trasferimento in paesi dove vigono speciali giurisdizioni segrete. L’offshoring, ecco la parola chiave, è una delle principali strategie attraverso cui i gruppi capitalistici transnazionali mettono a frutto la loro posizione dominante.
I numeri del fenomeno sono da capogiro. Si stima che ogni anno oltre la metà del commercio mondiale e degli attivi bancari venga dirottata verso i cosiddetti “paradisi fiscali”. Circa un terzo dell’investimento diretto estero effettuato dalle imprese transnazionali passa attraverso i tesori nascosti, entro cui si svolgono circa tre quarti delle emissioni bancarie ed obbligazionarie internazionali. La stragrande maggioranza delle più grandi imprese statunitensi ed europee possiede società off-shore. […]
E sebbene il termine ‘off-shore’ evochi luoghi esotici, le giurisdizioni segrete, eredi come sono delle colonie britanniche e statunitensi, non abitano soltanto isole lontane. Se la più antica giurisdizione segreta d’Europa è la Svizzera, sono in particolare due i filamenti principali della ragnatela off-shore: uno fa capo alla City di Londra; l’altro alla borsa di Wall Street. […]
Non è mancato chi, in nome del principio della concorrenza fiscale, appoggiasse espressamente la diffusione di questi paradisi off-shore: gli Stati più efficienti, si diceva, sarebbero stati premiati. Le conseguenze sono state invece ben altre, due in particolare: una gara al ribasso nella quale tutti gli Stati hanno perso cospicue risorse e, così, la capacità di ripristinare l’eguaglianza nelle condizioni di partenza tra i propri cittadini; e un aumento della pressione fiscale sugli stessi contribuenti, che ha prodotto una sperequazione per la quale chi aveva di meno si è visto costretto a pagare di più.
Dopodiché, è vero che i paradisi fiscali servono anche a riciclare denaro sporco, ma ciò che conta qui è enfatizzare come il sistema off-shore sia al centro del processo di globalizzazione. Benché sia rimasto confinato nelle discussioni tra addetti ai lavori, esso rappresenta infatti una quota rilevante dell’economia globale, anche per il suo strettissimo legame con il sistema bancario, dove attraverso pratiche riservate ed estremamente complicate avvengono continui spostamenti di capitali, spesso usati per azioni speculative nei mercati borsistici. Il sistema off-shore non è, dunque, una semplice escrescenza, ma la testimonianza di come quei non-spazi, costruiti, protetti e incentivati da specifici soggetti politici ed economici, siano consustanziali alla logica del capitalismo globale[6].
È pur vero che qualcosa sta cambiando, che dopo anni di “concorrenza fiscale” distruttiva per le finanze pubbliche e assai vantaggiosa per le imprese transnazionali, i governi dei paesi industrializzati stanno cominciando a invertire la rotta. Ma la strada è ancora molto lunga e la determinazione politica non è sempre salda. Insomma, per dirla con Innerarity, non abbiamo ancora smesso di vivere in «un mondo offshore, cioè di poteri letteralmente “lontani dalla costa”, delocalizzati, un mondo i cui poteri rilevanti [o dominanti] non rendono conto a nessuno, sono irresponsabili e al di là della portata dell’autorità politica legittima»[7].
Il testo pubblicato è un estratto dal libro di Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, (Laterza, Roma-Bari 2017, euro 20).
L’autore è Dottore di ricerca in Filosofia politica, già borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli, attualmente Junior Research Fellow presso la Scuola Superiore di Studi Avanzati della Sapienza Università di Roma e visiting scholar presso l’École Normale Supérieure di Lione
[1] Cfr. S. George, Shadow Sovereigns: How Global Corporations are Seizing Power, Polity, Cambridge 2015.
[2] Cfr. D. Fuchs, Business Power in Global Governance, Lynne Rienner, Boulder 2007, pp. 71-158; Ead., Theorizing the Power of Global Companies, in J. Mikler (a cura di), The Handbook of Global Companies, Wiley-Blackwell, Oxford 2013, pp. 77-95. Ma si veda anche S. Wilks, The Political Power of the Business Corporation, Edward Elgar, Cheltenham 2013.
[3] Sulla sovranità dello Stato al tempo della finanza, G. Zagrebelsky, Moscacieca, Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 33-45.
[4] A. Ferrara, La democrazia e il potere assoluto dei mercati finanziari disancorati, in «Politica & Società», a. IV, 2015, n. 1, pp. 7-26: 15.
[5] Lo dimostra al meglio François Bourguignon nel suo La mondialisation de l’inégalité, Seuil, Paris 2012.
[6] Insiste su questo punto Ronen Palan nel suo fortunato Tax Havens. How Globalization Really Works, Cornell University Press, Ithaca 2010. In proposito, con un taglio più teorico, è da vedere anche il libro di Alain Deneault: Offshore. Paradis fiscaux et souveraineté criminelle, La Fabrique, Paris 2010.
[7] D. Innerarity, Un mundo de todos y de nadie. Piratas, riesgos y redes en el nuevo desorden global, Paidós, Barcelona 2013, p. 30.