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Processo Sabr, in Italia esiste la schiavitù

La sentenza dello scorso 13 luglio che ha riconosciuto il reato di riduzione in schiavitù a carico di alcuni imprenditori agricoli è il punto di arrivo di un cammino iniziato nel 2011, con lo sciopero dei braccianti alloggiati all’interno della masseria Boncuri a Nardò

In Italia ci sono uomini ridotti in schiavitù. Parte del lavoro agricolo stagionale del nostro paese, quello che fa crescere il nostro PIL, che permette l’esportazione e il consumo dei prodotti del made in Italy sulle tavole nostre e su quelle di mezza Europa, si basa anche su un lavoro “schiavile”. A sostenerlo non è uno dei tanti allarmi lanciati da qualche inchiesta giornalistica, non è la presa di posizione di una ONG o sigla sindacale. La riduzione in schiavitù è stata contestata come reato a 11 imputati dalla sentenza pronunciata il 13 luglio scorso dai giudici della Corte di Assise del Tribunale di Lecce nel processo nato dall’inchiesta Sabr, dal nome di uno dei caporali che organizzava buona parte del lavoro agricolo stagionale nel territorio di Nardò, in provincia di Lecce.

Lo sfruttamento lavorativo nel territorio di Nardò non è certo una novità: si registra ininterrottamente da oltre vent’anni, con un’intensità che nel tempo ha continuato a crescere, a seguito della modificazione di diversi fattori che hanno a che vedere tanto con la struttura produttiva, con le modificazioni delle colture agricole[1], quanto con elementi socio-economici più generali, vale a dire con le filiere produttive e distributive del settore, la crisi economica, che ha spinto verso l’agricoltura soggetti prima impiegati nel settore industriale e in quello dei servizi nelle città del centro-nord Italia, e le ricadute sociali delle politiche migratorie, con la conseguente riconfigurazione delle presenze migranti del territorio. Nelle campagne di Nardò, come nel resto del paese, è aumento in maniera consistente il numero di richiedenti asilo, rifugiati e titolari di altre forme di protezione – alcuni ancora formalmente nel sistema di prima o seconda accoglienza italiana, altri che vi sono comunque transitati – impiegati nella raccolta stagionale. Era un rifugiato politico anche Abdullah Mohamed, morto il 20 luglio del 2015, a soli 47 anni, mentre raccoglieva pomodori in un campo di proprietà di uno degli imputati nel processo Sabr, ora condannati in primo grado.

La sentenza dello scorso 13 luglio è, per così dire, il punto di arrivo di un cammino iniziato sei anni fa, con lo sciopero dei braccianti alloggiati all’interno della masseria Boncuri, allora gestita da due realtà associative, Finis Terrae e le Brigate di Solidarietà Attiva.

Lo sciopero era scoppiato il 29 luglio del 2011, quando un gruppo di braccianti decise di non assecondare la richiesta del proprio caporale che chiedeva loro di prestare lavoro aggiuntivo senza però ricevere alcun incremento retributivo. Da quel 29 luglio furono lanciate dai lavoratori una serie di mobilitazioni alle quali parteciparono sin da subito le diverse associazioni antirazziste e di volontariato del territorio e la CGIL. Mobilitazioni importanti quelle iniziate nel luglio del 2011, indette e portate avanti dai lavoratori autorganizzati (molti dei partecipanti erano lavoratori licenziati dalle fabbriche del nord-est con esperienze sindacali alle spalle). Le associazioni, così come pure il sindacato, durante tutta la fase dello sciopero, si limitarono ad attività di supporto (come la raccolta di viveri e denaro da destinare alla cassa di resistenza che viene istituita per i braccianti in sciopero) o, nel caso della CGIL, all’organizzazione di alcuni presidi e incontri in Prefettura per permettere il confronto tra i lavoratori, le parti sociali e le istituzioni locali.

Nello sciopero del 2011, il lavoro in quanto tale assunse una assoluta centralità. Chi scioperava lo faceva in quanto lavoratore: rinunciava al suo salario non per rivendicare generici diritti, ma specificatamente perché pretendeva il rispetto dei propri diritti sindacali. Tra le principali rivendicazioni portate avanti: il superamento del sistema del caporalato e la richiesta di trattare direttamente con i datori di lavoro, l’innalzamento dei livelli salariali, il rifiuto del lavoro a cottimo, la regolarizzazione del rapporto lavorativo, l’emersione dal lavoro nero e il riconoscimento di tutele e garanzie previdenziali.

Forse, a giudicare da quello che è successo nel corso di questi ultimi sei anni, la conquista principale di quelle mobilitazioni è stata l’adozione da parte del governo italiano del decreto-legge 138/2011 che all’articolo 12 introduce, per la prima volta nell’ordinamento giuridico del nostro paese, la pena della reclusione per chi effettua illegalmente intermediazione lavorativa. È grazie a quel decreto legge che si è potuto istruire il processo che oggi sancisce che a Nardò esiste la schiavitù. Non è di secondaria importanza ricordare anche che al processo decideranno di costituirsi come parte civile solo alcuni braccianti, l’associazione Finis Terrae, la CGIL, la Regione Puglia e non il Comune di Nardò, allora guidato dal Sindaco Marcello Risi, che decise apertamente di non schierarsi dalla parte dei lavoratori sfruttati.

La sentenza è un indubbio passo in avanti, un risultato di grande importanza. Tuttavia, basta fare un giro per le campagne di Nardò per rendersi conto che la situazione dei lavoratori, nel complesso, non è affatto migliorata: il ghetto continua ad esistere, il lavoro nero continua a rappresentare la modalità prevalente di impiego e il caporalato continua ad essere il meccanismo abituale per l’intermediazione tra domanda e offerta di lavoro. Anche l’approvazione della recente legge contro il caporalato (la n. 199/2016), di fatto, rischia di avere scarsa possibilità di successo nel contrasto allo sfruttamento in agricoltura, perché è una legge che si limita ad estendere il reato di intermediazione lavorativa illegale anche alle aziende agricole, mentre non interviene sostanzialmente sulle condizioni istituzionali, economiche e sociali, nelle quali prendono forma, tanto il caporalato, quanto, più in generale, i processi di sfruttamento in agricoltura.

Fin quando la lotta contro il caporalato non sarà associata ad una lotta forte, capillare e incisiva per i diritti del lavoro, probabilmente si otterrà poco. Gli interventi sul piano penale rischiano di essere insufficienti, così come pure la lotta al caporalato rischia di essere del tutto vana se non si interviene normativamente, da un lato, potenziando gli strumenti di tutela dei diritti dei lavoratori e invertendo radicalmente la tendenza, in atto da quasi un trentennio, che seguita a mortificare il corpus di diritti sociali in materia di lavoro, dall’altro, intervenendo sul piano delle politiche migratorie, favorendo modalità di ingresso e permanenza in condizioni di regolarità sul territorio che mettano in discussione l’attuale sistema di (non) accoglienza così come si è riconfigurato in Italia (e in Europa) almeno dal 2011.

 

 

[1] Alla tradizionale coltivazione delle angurie, la cui raccolta è quasi esclusivamente ad appannaggio delle squadre di lavoratori tunisini, si è aggiunta quella dei pomodori che ha richiamato maggiori quantità di forza lavoro diversificandone la composizione. Nella raccolta dei pomodori sono impiegati lavoratori provenienti da diverse parti del continente africano.