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Referendum, perché votiamo Sì

Una vittoria del “sì”, oltre che un invito simbolico ad abbandonare lo sfruttamento di energia fossile a favore delle rinnovabili, rappresenterebbe un profondo gesto di dissenso contro l’attuale governo

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Il 17 aprile gli italiani saranno chiamati al voto per esprimersi sulle estrazioni di idrocarburi in mare. Grazie ai nove consigli regionali che si sono fatti promotori del referendum, la popolazione potrà decidere se mettere una croce sul “sì” e abolire così la norma che consente alle società petrolifere di fare attività di ricerca ed estrazione di gas e petrolio a meno di 12 miglia marine dalla costa fino all’esaurimento naturale del giacimento. La chiamata alle urne su una legge così specifica si sarebbe potuta evitare se i nostri amministratori di governo avessero usato più buonsenso nel perseguire lo sviluppo di energia da fonti rinnovabili, ma purtroppo ha prevalso un’ostinazione fossile in tutti i sensi.

Delle 66 attuali concessioni italiane per le estrazioni in mare, solo 21 si trovano entro le 12 miglia marine e quindi sono coinvolte dal referendum. Se il “sì” dovesse vincere, queste concessioni non potranno più essere prorogate e i relativi impianti dovranno chiudere tra cinque e vent’anni, a seconda della data di inizio della concessione. Al momento, invece, le compagnie in possesso dei titoli possono chiederne il rinnovo fino all’esaurimento del giacimento.

Della minaccia rappresentata dalle estrazioni di idrocarburi in mare abbiamo già parlato in maniera approfondita su “Lo straniero” n. 170-171 (agosto-settembre 2014). Queste attività compromettono l’equilibrio marittimo e costiero della nostra penisola a causa delle tecniche distruttive utilizzate per la ricerca e le estrazioni, favorendo solamente gli interessi delle compagnie petrolifere che nel nostro paese approfittano di royalties molto basse (7-10% contro il 20-80% degli altri paesi) e di canoni di concessione irrisori (non più di 57 euro al chilometro quadrato). E questo nonostante sia noto che le materie prime presenti nei mari italiani siano di qualità e quantità piuttosto scarse. Eppure, i governi di Mario Monti e di Matteo Renzi sono stati colpevoli di avere concesso condizioni sempre più agevolate e ampie alle società di estrazione di gas e petrolio, arrivando a permettere di perforare praticamente ovunque in mare Adriatico e mar Ionio, compresi alcuni tratti che si affacciano su aree naturalistiche di pregio come la Costa dei Trabocchi e le isole Tremiti.

Nel frattempo, la vicenda ha avuto sviluppi grotteschi: nelle ultime settimane alcune multinazionali del petrolio come Shell e Petroceltic hanno rinunciato ad alcune concessioni già ottenute, forse in vista della possibile incertezza normativa. Ma soprattutto, la spinta referendaria ha portato il governo, con l’ultima Legge di Stabilità, a sospendere i nuovi permessi per le estrazioni marittime prima che la Corte costituzionale desse il via libera al voto. Di conseguenza, il referendum riguarderà solo i permessi già concessi, poiché già ora la legge vieta di concederne di nuovi, anche se non per sempre: una sospensione non è per sua natura definitiva, ma intanto la Corte costituzionale non ha accolto il quesito relativo alle nuove estrazioni perché ha ritenuto che fosse già stato superato.

Il referendum ha assunto così un valore quasi più simbolico che concreto ed è già stato cannibalizzato dalla retorica politica e dalla disinformazione in entrambi gli schieramenti. Ma uno scenario ancora troppo probabile rimane quello del mancato raggiungimento del quorum, dal momento che la maggior parte degli italiani non è a conoscenza del voto, né soprattutto di cosa significhino realmente queste piattaforme, che sono sotto gli occhi solamente di una fascia ridotta di popolazione. Senza contare che, anche nelle località colpite dalla presenza delle estrazioni, le compagnie petrolifere hanno un elevato potere di controllo economico che si traduce in una facile manipolazione del consenso, più di quanto purtroppo possano fare i comitati per il “sì” con la loro propaganda. L’emblema di questo fatto si sta vedendo sulla costa di Ravenna, punta italiana dell’offshore, dove le piattaforme significano soprattutto lavoro e soldi, con circa 7.000 occupati diretti e indiretti (che rimane comunque un aspetto da non sottovalutare, in caso di chiusura degli impianti). Due esempi: da una parte, la storica squadra di pallavolo Porto Robur Costa con un comunicato dello scorso febbraio si è schierata ufficialmente a favore del settore offshore per “non aver mai provocato incidenti ambientali” (ma non ha contato i danni permanenti e a lungo termine) e per “avere contribuito alla crescita del territorio al fianco dello sport, della cultura, del volontariato” (glissando però sulla nota azienda implicata in questa attività che è anche principale sponsor della squadra sportiva); dall’altra parte, le associazioni degli imprenditori turistici costieri continuano a restare in imbarazzante silenzio per paura di perdere i 12 milioni di euro che Eni, titolare delle concessioni al largo del mare ravennate, stanzia ogni tre anni per interventi a tutela della costa (che è martoriata dalle attività di estrazione di Eni stessa). Non basta, insomma, la vista di queste orribili piattaforme a pochi chilometri dalla spiaggia che potrebbero oltretutto diventare un disincentivo al turismo, né fanno riflettere abbastanza i gravi episodi di erosione costiera che affliggono questa località, dovuti anche alla subsidenza del suolo sotto il quale viene estratto il metano. E questo è solo uno dei tanti casi di cecità sull’argomento che non colpiscono solo Ravenna, ma che in una città vocata al turismo e alle estrazioni sono particolarmente delicati.

Da qui al 17 aprile, insomma, lo sforzo collettivo dei favorevoli al “sì” dovrà concentrarsi nel sensibilizzare più persone possibili per portare a votare almeno la metà degli aventi diritto. Il problema, anche se può apparire circoscritto e lontano, riguarda il mare che è una delle principali ricchezze naturali italiane nonché una fondamentale economia tra il turismo e la pesca, senza che ci sia bisogno di farlo diventare un colabrodo. Ma soprattutto, una vittoria del “sì”, oltre che un invito simbolico ad abbandonare lo sfruttamento di energia fossile a favore delle rinnovabili, rappresenterebbe un profondo gesto di dissenso contro l’attuale governo che, tra i permessi concessi senza tenere conto del fragile equilibrio ambientale e l’accanimento verso una politica energetica arretrata, è colpevole di mancare di rispetto nei confronti dei cittadini e della natura.