Una generazione precaria, consapevole della crisi, che guarda con scetticismo verso quei soggetti politici e sindacali che vorrebbero percorrere quella strada. La seconda puntata dell’analisi
I ventenni di oggi sono cresciuti [1] in mezzo ad un clima sociale profondamente differente rispetto a chi, oggi, ha più di trent’anni. Hanno attraversato le fasi dell’infanzia e dell’adolescenza mentre si consumava il passaggio, descritto magistralmente da Benasayag e Schmit [2004], del futuro da terra di promessa e progresso a luogo di insidia. Particolarmente in Italia, dove più forte pesa il pessimismo verso il futuro e verso le prospettive dei giovani[2]. E dove, parallelamente, lo svantaggio che contraddistingue le giovani generazioni sotto il profilo socio-economico si staglia più marcato che altrove[3].
Sono cresciuti, inoltre, pressati da adulti – nei loro ruoli di genitori, maestri e professori, allenatori, conoscenti… – che, pure in buona fede, li hanno invitati a tenere bene in considerazione che il futuro non sarà facile, tutt’altro. E che, dunque, sarà bene che scelgano con accortezza la loro strada. Studia, o sarai disoccupato. Non iscriverti al liceo classico, non scegliere filosofia, non fare il giornalista: ce ne sono già troppi, a spasso. È quella che Benasayag e Schmit descrivono come un’educazione basata sulla minaccia del peggio. Ecco perché ci appaiono così disillusi: se i sogni fanno parte di una cultura orientata fiduciosamente verso il futuro, quando questo appare invece – e viene presentato – come una minaccia, non c’è spazio per i sogni né per il desiderio. Bisogna piuttosto mettere ai margini tutto ciò che “non serve”, che è astratto, che non è quantificabile. Che è grande.
Come si riflette, tutto questo, sul piano dei rapporti tra i giovani e la politica? La letteratura recente sottolinea, in merito alla partecipazione politica dei giovani, come questi ultimi tendano ad allontanarsi dalle forme istituzionalizzate (voto, attività all’interno dei partiti etc.) per guardare però con maggiore interesse verso modalità non convenzionali (attraverso movimenti, associazioni, consumo critico): è ancora così?
La prima pista di riflessione parte dall’osservazione di come la loro disillusione intacchi il senso di efficacia politica. Per mobilitarsi, è necessario essere sostenuti dalla convinzione che allo sforzo della partecipazione possa corrispondere un risultato. I giovani, invece, “sanno” – ancor prima di scendere in piazza – che tanto non servirà a nulla. Il loro senso di inefficacia coinvolge peraltro anche le modalità dal basso, spontanee di attivismo, come quelle legate al consumo critico (tab.1). Si tratta di un elemento di ricerca rilevante, visto che, come si è anticipato, fino a una decina di anni fa i giovani sembravano “naturalmente” propendere verso l’attivismo diretto e di movimento che in qualche misura compensava, agli occhi degli osservatori, la loro progressiva distanza da soggetti e prassi partecipative più istituzionalizzati e convenzionali.
Tab. 1 – Qual è il suo grado di accordo con le seguenti affermazioni? (per niente, poco, molto, moltissimo)
Valori percentuali, in base alla coorte di nascita
Anno di nascita | 1995-1984
giovani |
1972-1983
giovani adulti |
1962-1971 | 1952-1961 | Fino al 1951 | Tutti |
La gente come me non ha alcuna influenza su quello che fa il governo (molto o abbastanza d’accordo)* | 63.1 | 60.0 | 56.9 | 51.2 | 55.0 | 57.1 |
I consumatori, acquistando o boicottando certi prodotti, possono spingere le aziende multinazionali a rispettare l’ambiente, i diritti umani e quelli dei lavoratori (molto o moltissimo d’accordo) ** | 56.2 | 63.0 | 62.5 | 74.7 | 72.7 | 67.6 |
Ai politici non importa nulla delle opinioni di persone come lei (molto o moltissimo d’accordo) ** | 67.3 | 67.6 | 63.1 | 62.5 | 58.7 | 62.9 |
*Fonte: Demos&Pi, Osservatorio di Pavia e Fondazione Unipolis, Osservatorio Europeo sulla sicurezza, 2012, n. 2009
** Fonte: LaPolis – Coop Adriatica 2010, Consum-attori, n. 1195 (giovani) e 332 (adulti)
La loro distanza dall’idea che si ci possa mobilitare insieme per raggiungere obiettivi comuni è così ampia che finiscono col guardare con sospetto chi decide di percorrere quella strada. Infatti, la loro percezione delle persone che decidono di mobilitarsi, anche attraverso gruppi e movimenti, spesso è inquinata 1)dal sospetto di fini personali o 2) dalla sensazione che la politica sia un campo di battaglia tra estremisti. Molti giovani, tra quelli che abbiamo intervistato, motivano la loro distanza dalla politica con l’argomentazione secondo cui coloro che vi si dedicano sarebbero dei “fanatici”, degli “invasati”, rei di adottare letture ideologiche che “servono soltanto a sviare l’attenzione dalla realtà”. La loro distanza rispetto alla possibilità di misurarsi con ideali di cambiamento dell’esistente li conduce ad adottare, per spiegarsi il comportamento di chi appare maggiormente coinvolto in politica, attraverso le metafore – evidentemente più convincenti – della fede calcistica o del tornaconto personale.
“Io penso di far parte di quella categoria che vive la politica un po’ lateralmente diciamo, invece parecchie persone con cui parlo faccio caso che sono effervorati da questa cosa, e tengono il voto nascosto, o sono fermamente rossi o sono fermamente neri o sono fermamente verdi, e li vedo molto convinti, come se fosse un tifoso dell’Inter, un tifoso della Juve o un tifoso del Milan; e guai a chi gli tocca il suo politico o la sua politica, come se ne ricavasse qualche profitto…” (intervista n. 45)
Ma, se la politica non è più un mezzo per ottenere un cambiamento significativo del modo in cui vanno le cose, cosa rimane della politica stessa? Il risultato di questa sottrazione appare una concezione minima, tecnica, di politica. Una politica ridotta ad amministrazione dello status quo, che vede estinguersi la sua funzione nell’obiettivo di apportare piccole migliorie, frammentate, in risposta alle varie “emergenze” del presente. E le richieste che i giovani rivolgono (si accontentano di rivolgere) alla politica appaiono congruenti con questa concezione: onestà (nel senso di “assenza di corruzione”), competenza tecnica, semplificazione marcata del sistema politico per conseguire governabilità, intesa come abbattimento dei costi e dei tempi degli iter decisionali.
Di fronte a tali aspettative, non c’è da augurarsi che la politica “accontenti” i giovani, nel senso che persegua forzatamente le loro domande di una politica minima, tecnica. Soprattutto là dove la semplificazione e la disintermediazione finiscono per erodere le basi della democrazia. Perché, al di sotto delle loro domande, si muove la disillusione e la certezza di non poter guardare con fiducia al futuro: è qui, dunque, che si dovrebbe agire. Lungo, suggeriamo, almeno tre piste.
- Ai giovani deve essere restituito il diritto di vivere appieno la loro giovinezza, ritrovando sicurezza nel presente e fiducia verso il futuro. Si tratta di scalfire la cappa di pessimismo che li porta ad essere certi di non avere opportunità, che è in fondo il portato di decenni di trascuratezza, da parte della politica, nei confronti delle prerogative progressivamente perdute dai giovani. Da diversi anni notiamo infatti una dinamica particolare, per cui, mano a mano che vengono alla luce dati sullo svantaggio dei giovani in termini di risorse, tutele e opportunità, la politica risponde elargendo epiteti volti ad attribuire ai giovani stessi la causa del loro stesso disagio. Dunque, la prima risposta non può che riguardare il Welfare e la spesa pubblica: misure efficaci di sostegno al reddito per tutte le categorie di lavoratori, politiche e servizi che, dal diritto allo studio al sostegno ai nuovi nuclei familiari fino alle condizioni e tutele del lavoro perseguano l’obiettivo di ribilanciare spesa sociale e opportunità in maniera finalmente più attenta alle nuove generazioni.
- I giovani, come abbiamo visto, sembrano “schiacciati” sul presente, e allo stesso modo la loro idea di politica come risposta frammentaria alle emergenze oggettive del presente è priva di qualunque tensione verso il cambiamento, dunque verso un futuro desiderato, in qualche misura progettato. D’altra parte, però, la politica sembra avere per prima perso di vista la capacità di confrontarsi sul futuro, estinguendosi nell’eterno presente della ricerca “in tempo reale” del consenso dell’opinione pubblica. I giovani scambiano per “oggettivo” ciò che invece è opera di costruzione politica (le “emergenze” del momento), ma è la politica stessa ad aver rinunciato a porsi come confronto aperto tra scenari futuri alternativi, dissimulandosi dietro la maschera dell’oggettività e della mancanza di alternative. Certo, c’è anche un’ingenuità nell’atteggiamento dei giovani, che scambiano per oggettivo ciò che non lo è, e che è, in fondo, il portato di una lunga e crescente estraneità, dei giovani ma, con essi, della società intera, dai luoghi e dalle prassi della partecipazione istituzionalizzata. “Compensata” da un maggiore interesse, almeno fino a tempi recenti, nei confronti della partecipazione di movimento, che però ha una valenza formativa sul linguaggio, le prassi, il funzionamento della democrazia meno diretta ed efficace. È urgente, dunque, che si ricreino canali e occasioni di dialogo e partecipazione tra cittadini – e, tra loro, giovani – e istituzioni. Che si ricostruiscano argini al generalizzarsi di un cittadino “profano” della politica [Matonti 2005].
- Un ulteriore versante fondamentale della riflessione riguarda la pedagogia, e coinvolge tutti i soggetti che a vario titolo (scuola, famiglie, associazioni…) hanno a che fare con l’educazione dei più giovani. Il punto è che il desiderio del futuro, e non la minaccia del peggio, dovrebbe tornare ad essere il motore dell’apprendimento. Anche nella scuola, dove si tratterebbe di ridiscutere l’impianto pedagogico sulla scorta dell’insegnamento di Freud, per cui la molla dell’apprendimento è proprio il desiderio di imparare e comprendere. Non si tratta di vivere nell’irrealtà, alimentando illusioni pericolose. Il punto è che, a forza di presentare ai giovani il futuro in termini di minaccia, e di esortarli a ridimensionare i loro sogni ritagliandoli sulla scarsità di opportunità che si presume avranno, si rischia di cadere nella trappola della profezia che si autoavvera. Si rischia, cioè, di tagliare, ridurre il potenziale di innovazione, cultura, cambiamento, crescita, critica di cui le giovani generazioni possono essere vettore. E si rischia, per evitare la delusione, di alimentare disillusione: non è detto che la cura sia migliore del male.
Riferimenti bibliografici
Ambrosi, E. e A. Rosina (2009) Non è un Paese per giovani, Roma, Marsilio.
Benasayag, M. e Schmit, G. (2004) L’epoca delle passioni tristi, Milano, Feltrinelli.
Boeri T., Galasso V. (2007) Contro i giovani. Come l’Italia sta tradendo le nuove generazioni, Milano, Mondatori.
Forni, L. (2013) Il peggioramento della condizione economica dei giovani in Italia, su “il Mulino”, vol. 2, pp. 237-245.
Lello, E. (2015) La triste gioventù. Ritratto politico di una generazione, Rimini, Maggioli.
Livi Bacci, M. (2008) Avanti giovani, alla riscossa, Bologna, Il Mulino.
Livi Bacci, M. e De Santis, G. (2007) Le prerogative perdute dei giovani, “Il Mulino”, n. 3, 472-481.
Matonti, F. (a cura di) (2005), La Démobilisation Politique, Parigi, La Dispute.
Rosina, A. (2015) Neet. Giovani che non studiano e non lavorano, Vita e Pensiero.
[1] Questo articolo riprende alcuni punti trattati in maniera più estesa e analitica in un saggio di recente pubblicazione [Lello 2015].
[2] Come indicano chiaramente, per esempio, le indagini dell’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, a cura di Demos & Pi., Fondazione Unipolis e Osservatorio di Pavia.
[3] All’interno della vasta letteratura che recentemente ha tematizzato lo svantaggio dei giovani, cfr. Livi Bacci e De Santis [2007], Livi Bacci [2008], Ambrosi e Rosina [2009] e Boeri e Galasso [2007], Forni [2013], Rosina [2015].