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37 gradi e mezzo di febbre per la sanità

37 miliardi di tagli in 10 anni, molte Regioni non in grado di soddisfare i Livelli Essenziali di Assistenza, dimezzati i posti letto per terapia intensiva, una carenza cronica di organico tra medici e infermieri. Lo stato della sanità pubblica italiana, cosa fare per rilanciarla, e come finanziarla.

Le prescrizioni per la prevenzione del contagio del coronavirus impongono di stare a casa in caso di febbre oltre i 37,5°. Dobbiamo tutte e tutti rispettare le prescrizioni, ma pensiamo che questo periodo di isolamento debba portarci a riflettere sulla “febbre” del Sistema Sanitario Nazionale, una mancanza di finanziamenti da oltre 37 miliardi in 10 anni, che ci ha portato a questa fragilità di fronte alla pandemia. La rappresentazione delle conseguenze dei tagli è un grafico con una curva a gobba che rappresenta la diffusione della SARS CoVid19 nel tempo, poi una linea al centro che rappresenta la capacità degli ospedali italiani di curare pazienti. Tutti i numeri sopra quella linea, non riceveranno assistenza adeguata. Un’immagine impietosa che è rimbalzata su tutti i canali, usata per spiegare le misure di prevenzione coatte, ma che mette ben poca rassicurazione e conforto. Il Coronavirus arriva a chiedere conto di quel -37 miliardi alle casse della sanità pubblica, delle cattive politiche di formazione medica e sanitaria, dei tagli alla ricerca pubblica. Già in questi giorni i medici delle aree maggiormente colpite dall’epidemia si trovano a dover scegliere tra chi può avere maggiori o minori speranze di sopravvivenza, perché i posti in terapia intensiva non sono sufficienti per tutti i casi gravi.

Secondo il centro di ricerca GIMBE sarebbe questo il mancato finanziamento complessivo degli ultimi dieci anni, raggiungendo una spesa in carico ai cittadini del 23,5 % rispetto alla media UE del 16%, a fronte di una spesa sanitaria italiana di 2.884 euro per cittadino. La spesa italiana è pari all’8,8% del PIL, inferiore di un punto percentuale alla media UE – dati 2017. Tra il 2010 e il 2017, ben 8 Regioni non sono state in grado di soddisfare i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA): praticamente tutte le regioni dal Lazio in giù. Per avere più chiaro cosa hanno rappresentato questi tagli basta guardare i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS): dimezzati i posti letto per terapia intensiva nell’arco di 18 anni, per un totale di solo 275 ogni 100mila; dal 2009 al 2017 meno 46 mila unità di personale dipendente. La situazione si aggrava al sud dove, negli ultimi 10 anni, sono stati persi 70mila posti letto.
Se l’emergenza attuale ci ha fatto balzare agli occhi la carenza di posti letto, lo zoccolo duro di questa situazione sta proprio nella carenza di organico. Al momento siamo nel pieno di un effetto a cascata, tra vecchie e nuove politiche, che mostra una continua emorragia senza un piano efficace né di reclutamento né di formazione. Secondo la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, a gennaio 2020 l’Italia aveva -50.000 infermieri rispetto al fabbisogno attuale e si prepara a perderne tra i 20 e i 30.000 per pensionamento nei prossimi anni. Per i medici, invece, la carenza sarà di -45.000 nel giro di 5 anni. Questi dati indicano che non avremo personale sufficiente a soddisfare l’attuale fabbisogno di cure sanitarie, ma risultano ancor più gravi se consideriamo che questo fabbisogno andrà ricalcolato al rialzo per garantire una maggiore garanzia del diritto alla salute: da questo punto di vista, il personale necessario al SSN sarà sicuramente maggiore di queste stime. Tra numero chiuso in entrata all’università, carenza di borse di specializzazione per i medici – ricordiamo che solo medici con formazione specialistica possono lavorare per il SSN – e blocchi delle assunzioni, il filo di questa crisi sanitaria si può rintracciare dalle primissime fasi della formazione, con un effetto a “doppio imbuto”.

La qualità del sistema pubblico italiano nel mondo e critica alla privatizzazione 

Il Servizio Sanitario Nazionale dell’Italia è uno dei migliori al mondo, poiché garantisce l’assistenza sanitaria a quasi tutta la popolazione in attuazione dell’art. 32 della Costituzione, inclusi i migranti. La retorica delle forze politiche prevalenti ha costruito una valanga di luoghi comuni riguardo sprechi e inefficienze, per sostenere le politiche di riduzione della spesa pubblica. Eppure dobbiamo fare attenzione e non farci condizionare da campagne mediatiche su episodi di “malasanità”, perché in realtà l’OCSE certifica che il rapporto tra la spesa media per paziente in sanità e la capacità di curare le patologie nel nostro Paese segna risultati eccellenti, tra i migliori al mondo. A causa dei tagli operati dalla classe politica, noi cittadini abbiamo a disposizione meno risorse pubbliche rispetto ad altri Paesi, però ci viene garantita una elevata aspettativa di vita. In questa fase di emergenza epidemica è chiaro che il nostro Servizio Sanitario Nazionale, pur indebolito dal sottofinanziamento, è una grande conquista di civiltà che sta salvando la vita di migliaia di persone. 

Tuttavia la retorica di attacco alla sanità pubblica ed i conseguenti tagli, hanno portato ad aumenti dei ticket e alla riduzione in numero e in qualità delle prestazioni erogate dal pubblico, con sempre maggiori costi per la popolazione e penalizzazioni per i più poveri. Secondo l’8° Rapporto Censis-Rbm Assicurazione salute pubblicato nel 2018, circa 11 milioni di italiani si sono dovuti indebitare per pagare le cure, di cui 3 milioni hanno dovuto vendere la propria casa per affrontare delle spese sanitarie. Il 9° Rapporto indica invece che tra il 2014 e il 2018 la spesa per la sanità privata è aumentata del 7,3% arrivando a 37 miliardi circa all’anno, mentre contemporaneamente la spesa pubblica veniva ridotta del 0,3%. La riduzione della spesa pubblica ha aperto ampie praterie agli affari privati nell’ambito sanitario, con forti incentivi da parte delle forze politiche di ogni colore. Oltre al danno al SSN, c’è anche la beffa del mancato rinnovo del contratto collettivo nazionale dei lavoratori della sanità privata da 13 anni, imposto dai proprietari delle cliniche.

 Subito le nuove risorse nel DEF 

Oggi il finanziamento ordinario statale del SSN deriva quasi totalmente dalla fiscalità generale, mentre le spese sono individuate dalle singole Regioni che concorrono in gestione della materia. Le singole Regioni infatti devono al più presto garantire un maggiore fabbisogno di salute per tutelare maggiormente il diritto alla salute dei cittadini, già compromesso negli ultimi anni e ad oggi pienamente in crisi con l’epidemia. Per fare fronte all’emergenza sanitaria causata dalla diffusione dei COVID-19, il Governo ha stanziato 650 milioni nel SSN e ha velocizzato i processi di assunzione per 20mila operatori sanitari e medici. Ciò che manca però è la prospettiva di stabilizzazione di questi precari – come denunciano gli specializzandi di Chi si cura di te? – che non avranno la garanzia di passare da un contratto precario ad uno a tempo indeterminato dopo i 2 anni, ma godranno solo di un titolo preferenziale nei concorsi pubblici. Altrettanto preoccupanti sono i contratti di lavoro autonomi di 6 mesi aperti anche agli specializzandi di quarto e quinto anno, senza alcuna tutela contrattuale ma soprattutto in una situazione in cui il rischio professionale è altissimo. Una prima soluzione per far fronte, perciò, alle tante crepe all’interno del nostro SSN fatte emergere drammaticamente dall’emergenza coronavirus, sarebbe quella dell’assunzione a tempo indeterminato dei suddetti operatori.

Ma lo stato del nostro SSN richiede un ragionamento ancora più profondo, legato al tipo manovre politiche che lo hanno colpito negli ultimi anni e quelle che possono essere risposte strutturali utili non solo a superare la crisi attuale, ma a garantire che la caratteristica di universalità e accessibilità della sanità italiana non debba letteralmente pesare su chi vi lavora. Oltre l’emergenza, serve una volta e per tutte un piano di finanziamenti pubblici trasversale, che riesca a garantire una formazione medico-sanitaria di qualità e per tutte e tutti: dalle infrastrutture universitarie agli strumenti di diritto allo studio per contrastare la migrazione obbligata degli studenti, l’eliminazione del numero chiuso e soprattutto la copertura al 100% delle borse di specializzazione per i medici in uscita, alle riforme degli ordini professionali e l’indizione dei concorsi pubblici per l’assunzione di nuovo organico.
Per fare questo è necessario che le risorse però vengano recuperate attraverso una fiscalità che vada a redistribuire le ricchezze. Per mantenere il principio di accesso universale del nostro SSN, infatti, è impensabile aumentare i costi dei ticket o dei super ticket, bensì è necessaria una forma di tassazione sulla parte più ricca della popolazione e sui tantissimi privati che hanno creato un vero e proprio business intorno alle carenze del sistema sanitario pubblico, sfruttandone l’incapacità di rispondere al fabbisogno per imporre prezzi altissimi per visite specialistiche. Inoltre, la spesa sanitaria deve essere immediatamente esclusa da ogni vincolo di bilancio previsto dalle politiche di austerità, di cui sosteniamo la necessità di un superamento complessivo anche per rilanciare l’economia e il welfare a tutela della popolazione più esposta alla crisi.