Quali potrebbero essere le contromisure ai dazi di Trump, dalla cacciata di Apple al renmimbi come valuta alternativa al dollaro fino alla vendita dei titoli pubblici statunitensi detenuti dalla Banca centrale cinese (1.130 miliardi). Tutti incubi per gli Usa.
Di cosa siamo abbastanza sicuri
Sulla guerra scatenata su più fronti da Trump nei confronti della Cina alcune cose sembrano già oggi chiare. La prima è che tale guerra, partita apparentemente come un problema commerciale, si è via via mostrata nel suo vero volto, che è quello della lotta per il dominio tecnologico e, più in generale, per l’egemonia globale sul mondo. La potenza sino a ieri dominante cerca di impedire in ogni modo a quella emergente di raggiungerla e, peggio, di effettuare il sorpasso. Non è evidentemente la prima volta che ciò accade nella storia, con esiti nel tempo piuttosto vari.
Un’altra cosa che sembra certa è che tale guerra non si chiuderà con qualche accordo decisivo. Nel breve termine sembrerebbe in qualche modo possibile che si trovi un punto di incontro, perché i costi della rottura sarebbero troppo alti per entrambi i contendenti, anche se bisogna tener conto dell’irrazionalità frequentemente presente nei comportamenti umani. Tra l’altro, le catene di fornitura a livello mondiale sono strettamente interconnesse e introdurvi dei cambiamenti significativi costa molto e richiede comunque tempi adeguati.
Ma la lotta è destinata a protrarsi a lungo e a non venir meno anche se le prossime elezioni presidenziali venissero vinte dai democratici; infatti, “moderati” o liberal che siano, i membri di quest’ultimo partito appaiono dei sostenitori ancora più accaniti dell’egemonia statunitense. Qualcuno pensa persino che il conflitto tra i due Paesi strutturerà tutto il XXI° secolo (Frachon, 2019).
L’altra cosa che almeno a chi scrive sembra evidente è che, in qualche modo, come anche qualcuno ha detto, il presidente Usa era obbligato a fare qualcosa per contrastare l’avvento di un nuovo potenziale Paese egemone. Alla fine, plausibilmente, la Cina vincerà la nuova guerra fredda o almeno questa prima battaglia, peraltro con qualche danno temporaneo; ma a soffrire, per un po’ almeno, saranno, oltre alla Cina, anche gli Stati Uniti, ma non solo, tutta l’economia mondiale.
Un’ultima cosa che appare evidente è che la mossa di Trump sembra porre poi un evidente problema all’Europa. Il destino di molte grandi imprese del nostro continente sembra legato ormai per molti versi all’umore, giorno per giorno, del presidente americano.
Il nostro continente appare stretto tra due fuochi. Da una parte Trump si agita e lo minaccia, con varie mosse, con potenziali sanzioni e dazi vari, dall’altra la Cina è diventato un nostro interlocutore ineludibile, in particolare per quanto riguarda l’economia tedesca, inglese e francese, nonché, per molti aspetti, quella di diversi Paesi europei minori.
L’Europa non sembra così sapere che cosa fare.
Il quadro statunitense
Al di là di quello che potrebbe succedere in Cina, le imprese e i consumatori statunitensi saranno dei grandi perdenti di questa guerra.
Si devono già registrare le proteste pubbliche di diverse categorie di imprese, dai produttori di scarpe, alla Wallmart, alle società di semiconduttori, ad alcune categorie di produttori agricoli, mentre plausibilmente molti altri avranno fatto le loro rimostranze in maniera più riservata.
Per altro verso, come hanno scritto in molti, per il momento le imprese che importano le merci cinesi o dei componenti dallo stesso Paese hanno sacrificato almeno in parte i profitti assorbendo i dazi senza alzare i prezzi; ma questo comportamento non può durare a lungo se la guerra commerciale va avanti (Di Donfrancesco, 2019).
Il prolungamento della guerra costerà, comunque, somme elevate alle famiglie americane. La Federal Reserve Bank di New York valuta che già con le tariffe varate da Trump da diversi mesi ogni famiglia americana perderà 414 dollari all’anno; con gli aumenti più recenti si arriva invece a 831 dollari (Smialek, 2019).
Su di un altro piano, i prodotti non importati dalla Cina, lo saranno da altre fonti, dal Vietnam, dal Messico (peraltro ora anch’esso colpito dai dazi) o dall’India e quindi il saldo commerciale statunitense rimarrà alla fine lo stesso.
Per altro verso, molte imprese statunitensi perderanno mercati molto importanti sia a causa dei dazi che delle sanzioni contro l’esportazione di prodotti tecnologici nel Paese asiatico.
Cosa può fare la Cina
Alcuni commentatori hanno sostenuto che gli Stati Uniti si trovano in una posizione di forza con la Cina, in quanto le esportazioni cinesi negli Stati Uniti sono grandi quattro volte quelle Usa in Cina e la decisione sui dazi danneggerebbe quindi la Cina molto di più.
Ma il Paese asiatico ha molte frecce al suo arco.
Intanto una svalutazione della moneta, peraltro in atto (nell’ultimo periodo il renminbi ha in effetti perso circa il 9% sul dollaro) potrebbe contribuire ad alleviare i disagi per le imprese cinesi esportatrici. Diverse aziende possono poi trasferire le loro produzioni destinate agli Stati Uniti nei Paesi vicini. D’altro canto esse possono concentrare l’attenzione verso altri Paesi ed aumentare le loro vendite anche in patria, diversificando magari le loro attività. Certamente qualche danno, più o meno rilevante, resterà.
Comunque lo Stato cinese tenderà a supportare in ogni modo le imprese in difficoltà. Consideriamo che il peso dell’export cinese verso gli Usa non ha più l’importanza di un tempo. Ricordiamo che nei primi quattro mesi del 2019, il saldo del commercio Cina-Stati Uniti registra un surplus a favore di Pechino di 90,2 miliardi di dollari, contro 70,9 miliardi nel 2018.
Intanto gli Stati Uniti, mentre registrano un grande deficit con la Cina nel commercio dei prodotti “fisici”, presentano un surplus sui servizi di circa 50 miliardi, che potrebbe essere colpito. Poi le imprese americane producono nel Paese asiatico merci per circa 250 miliardi di dollari, che poi distribuiscono in gran parte in loco. Si sa su questo piano che i cinesi stanno mettendo delle difficoltà burocratiche crescenti sia all’ingresso dei prodotti, parti e componenti americani, sia per quanto riguarda la logistica dei prodotti che devono circolare all’interno.
Un’altra mossa possibile è quella di avviare una grande campagna di boicottaggio dei prodotti Usa. Un’altra ancora quella di preparare una lista nera delle imprese statunitensi che compiono atti economici considerati ostili e pericolosi, replicando in quest’area la lista che stanno preparando negli Stati Uniti contro un certo numero di imprese cinesi (Wong, Zhang, 2019).
Si potrebbe innescare una rappresaglia su alcune imprese selezionate. Un bando dei prodotti della Apple ridurrebbe i suoi profitti di un quinto e il suo valore di mercato forse anche di più. Danni ancora più gravi farebbe uno stop alla produzione degli stessi. Un blocco della General Motors avrebbe risultati ancora più devastanti per l’azienda dell’auto.
Tende a verificarsi un certo esodo di insediamenti produttivi statunitensi dalla Cina verso altri lidi. Questo di norma può succedere nel caso in cui l’insediamento sia dettato da ragioni di costi, mentre le imprese straniere hanno sempre più teso ad insediarsi in Cina soprattutto per penetrare quell’immenso mercato. D’altro canto per le imprese tentate di spostare le loro fabbriche fuori dalla Cina, appare difficile trovare altrove l’efficienza, la capacità e velocità logistica, nonché la rete di forniture che offre il Paese.
Poi ci sono le cosiddette “terre rare”, materiali indispensabili in molti settori dell’elettronica anche militare, dai telefonini ai computer agli aerei da guerra. La Cina ne produce il 90% del totale mondiale, estratte dal suo sottosuolo o importate per essere lavorate nelle sue fabbriche (Bezat, 2019). Un blocco delle stesse e di altri materiali strategici avrebbe esiti molto pesanti, almeno nel breve-medio termine.
Come hanno riportato i media il giorno dopo il bando di Trump contro la Huawei, il presidente cinese ha visitato all’interno del Paese una fabbrica dove vengono lavorate le terre rare e, dopo qualche giorno, alcuni responsabili hanno velatamente fatto cenno alla possibilità di un blocco delle stesse nei confronti del “nemico” (Hornby, Zhang, 2019). Peraltro l’applicazione pratica del blocco presenta qualche difficoltà, dal momento che tali terre rare sono poi incorporate in molti componenti e prodotti che servono alla Cina.
Poi c’è la questione del Boeing 737 Max. Pensiamo che la Cina, prima di concedergli di nuovo il permesso di volo, aspetterà un bel po’, il che potrebbe significare un pratico blocco dei moltissimi collegamenti aerei effettuati con tale modello di velivolo, non solo da parte delle compagnie cinesi, ma anche di quelle degli altri Paesi che effettuano dei voli da e verso il Paese.
Potrebbero poi essere fermate tutte le autorizzazioni ai processi di fusione ed acquisizione che interessano le imprese Usa, ameno nel caso che esse abbiano delle operazioni rilevanti nel paese asiatico.
C’è poi la ben nota questione dei titoli pubblici statunitensi detenuti dalla Banca centrale cinese, per 1.130 miliardi di dollari – secondo le ultime rilevazioni – cifre che ne fanno il primo investitore estero di tali titoli. La Cina potrebbe decidere di venderli in tutto o in una gran parte, con quali conseguenze sui mercati non appare peraltro chiaro, forse quelle di ridurre la domanda degli stessi e la loro liquidità e quindi di aumentare i costi di approvvigionamento per il governo Usa. Una riduzione del valore dei titoli danneggerebbe però la stessa Cina (De Vergès, 2019), danno che Pechino sarebbe pronta a sostenere in caso di un aggravamento del conflitto.
Alla fine, le possibili contromisure certamente non mancano, anche se alcune di esse presentano qualche inconveniente.
conclusioni
Le mosse di Trump hanno certamente mostrato la ancora forte presa degli Stati Uniti su molti dei fronti dell’economia mondiale, attraverso in particolare l’arma tecnologica, quella commerciale e quella monetaria. Ma l’uso esasperato di tali strumenti spinge la Cina ed anche altri Paesi a arrivare al più presto a neutralizzare tali minacce investendo ancora di più nelle tecnologie e accorciando i tempi dell’autonomia valutaria (The Economist, 2019).
Evidentemente il Paese asiatico, tra l’altro principale importatrice al mondo di petrolio e di materie prime, nonché con a disposizione grandi liquidità, starà certamente accelerando i piani per l’affermazione del renmimbi come valuta alternativa al dollaro. In qualche modo a tale progetto si potrebbero collegare anche Russia e Iran, oltre ad altri Paesi.
Il Financial Times si domanda perché la stessa Europa, anch’essa molto esposta ai ricatti statunitensi, non proceda sulla stessa strada (Munchau, 2019), dato che ne avrebbe i mezzi tecnici.
Naturalmente la Cina potrà soffrire abbastanza sul breve termine e soprattutto in alcuni settori per le azioni ostili degli Stati Uniti. Nel 2018 il Paese ha importato chip per circa 300 miliardi di dollari, una somma superiore a quella sborsata nello stesso anno per le importazioni di petrolio e gas. Ma essa sta cercando di accelerare i programmi di autosufficienza nel campo dei chip, del software e di altre partite e, con qualche sforzo e qualche problema, si renderà con il tempo autosufficiente. La stessa spinta all’autosufficienza sarà ora portata avanti anche da altri Paesi che se lo possono alla lunga permettere, come l’India.
Testi citati nell’articolo
-Bezat J-M., Le smartphone et les terres rares, Le Monde, 24 maggio 2019
-De Vergès M., Pour Pékin, l’arme de la dette des Etats-Unis reste difficile à activer, Le Monde, 31 maggio 2019
-Di Donfrancesco G., Sono le imprese Usa a pagare il conto dei dazi alla Cina, Il Sole 24 Ore, 24 maggio 2019
-Frachon A., Chine-Etats-Unis: l’heure des comptes, Le Monde, 1 giugno 2019
-Hornby L., Zhang A., China’s state planner suggests using rare earths in US trade war, www.ft.com, 29 maggio 2019
-Munchau W., America’s “exorbitant privilege” is Europe’s omission, www.ft.com, 26 maggio 2019
-Smialek J., How tariffs hurt the little guy, The New York Times International, 1-2 giugno 2019
–The Economist, Circuit breaker, 25 maggio 2019
-Whong S.-L., Zhang A., China threatens to backlist foreign companies, www.ft.com, 31 maggio 2019