Di fronte al fallimento del neoliberismo e all’assenza di un’idea di politica industriale, lo Stato dovrebbe ri-avvalersi dell’impresa pubblica, favorendo la transizione verso la meta-sostenibilità e un modo di sviluppo che coniughi benessere economico e capitale sociale e naturale.
La crisi che ha colpito i paesi industrializzati oltre 10 anni fa si unisce al declino quasi trentennale dell’Italia. Se la generazione dei giovani fu quella vincente del periodo post-unitario – in termini di speranza di vita, alfabetizzazione, legislazione contro il lavoro minorile – quella dei giovani di oggi è quella perdente – precarietà, fenomeno dei lavoratori poveri, pensioni da fame. Abbiamo di che preoccuparci del futuro.
La crisi, oltre a costi economici e sociali imponenti, sta determinando il tramonto della teoria economica dominante – di cui il neo-liberismo è figlio – così come la Depressione del 1929 portò alla nascita del paradigma keynesiano? Stiglitz, Krugman e molti altri dicono di sì, ma si è certi solo che il modello economico dominante è sbagliato: non che le alternative siano corrette. L’economia neoliberista ha, in una delle sue forme più estreme, una raccomandazione di politica economica assai semplice: lasciar fare al mercato e lo Stato non sia imprenditore. Questa visione ha contribuito a produrre una crescita economica esponenziale che però sta distruggendo la Natura, cioè noi stessi.
Il declino si unisce all’assenza di una, seppur minima, idea di politica industriale. I dati ci dicono che la manifattura, come prima toccò all’agricoltura, è morente. Se nel lungo periodo gli operai saranno più rari dei neuroni di qualche sottosegretario, nel frattempo che fare? A me pare che abbiamo bisogno di una guida durante la transizione: ci vuole una “nuova IRI” che disegni la politica industriale meta-sostenibile della transizione.
Come sostiene Sbilanciamoci! nella sua Controfinanziaria, occorre “un Piano di investimenti pubblici a sostegno di un vero Green New Deal, con risorse da destinare alla riconversione ecologica dell’economia e al finanziamento dell’istruzione, della sanità, del welfare”. In particolare, sul piano ambientale occorre favorire l’adozione di tecnologie e produzioni di beni e servizi verdi, l’utilizzo di energie pulite, lo sviluppo di strumenti di mobilità sostenibile, un sostegno alla ricerca pubblica per la transizione ecologica dell’economia incoraggiando la ricerca su tecnologie e produzioni di beni e servizi verdi, “nel quadro di una politica industriale saldamente ancorata ai principi dello sviluppo sostenibile” (anche se dovremmo rispolverare la bio-economia di Georgescu Roegen e riconoscere che lo sviluppo sostenibile – così come l’economia circolare – è un ossimoro in quanto viola la seconda legge della termodinamica, e con essa la freccia del tempo). Non più salvataggi di Stato, ma uno Stato imprenditore e promotore di un nuovo modo di fare impresa sinergico alla ricerca e rispettoso dell’ambiente.
In Italia, poi, la grande industria è quasi assente e la dimensione è modesta dei maggiori gruppi italiani: meno di 20 aziende hanno più di 15-20mila addetti e nessuna è presente in attività ad elevata innovazione tecnologica. Il capitalismo si è caratterizzato da noi per miopia cullandosi dal 1992 con gli alti profitti derivati dalla fortissima svalutazione, dalla spesa pubblica a pioggia, e dall’elusione ed evasione delle imposte.
E poiché senza grande impresa non c’è ricerca, lo Stato potrebbe doversi di nuovo diventare produttore ricorrendo all’impresa pubblica, anche se per vie diverse da quelle dell’IRI. E cercare così di favorire sia la transizione verso la meta-sostenibilità che un modo di sviluppo che coniughi il benessere economico col capitale sociale e naturale. Dove trovare manager di adeguato livello, non è purtroppo un’altra storia.