Spesso grandi conquiste dei lavoratori avvengono dopo uno shock di sistema, come le otto ore che furono conquistate dopo la prima guerra mondiale e l’epidemia di spagnola. E’ il momento di tornare a chiedere una riduzione di orario di lavoro. Anche per modificare il cosa e il come si produce, innovando.
Ci sarà un prima e un dopo, adesso siamo nell’attimo di cesura, di svolta. La valanga del virus si ingrandisce via via sulla fragile montagna di squilibri internazionali. L’esito tuttavia non è predeterminato, i nuovi assetti futuri si stanno giocando in poche settimane, giorni addirittura, questi.
È una fase piena di pericoli, ma allo stesso tempo di possibilità, di opzioni ancora aperte. Le emergenze, reali o presunte, possono legittimare e accelerare misure economiche anti-popolari (la shock economy), limitare le libertà individuali, perfino ridurre le garanzie democratiche.
Se però guardiamo alla storia, anche grandi conquiste dei lavoratori sono avvenute in seguito e “grazie” a eventi di rottura, anche drammatici, che hanno deviato il corso della storia dalle precedenti prassi, consuetudini, inerzie. I modelli produttivi sono certo fondati sulla struttura tecnologica e organizzativa disponibile in ogni epoca e sui rapporti di forza tra classi sociali, ma anche su “cornici di senso”, percezioni simboliche ed emotive (frame, nella nota analisi di George Lakoff), paradigmi culturali sul naturale ordine delle cose, che ad esempio hanno legittimato per lungo tempo lo schiavismo o il salario inferiore per le donne.
La conquista più importante nella storia del movimento operaio, le 8 ore di lavoro, è avvenuta subito dopo la carneficina della I guerra mondiale e – vedi caso – i milioni di morti dell’influenza spagnola. In Italia i primi a ottenerle furono i metallurgici della Fiom nel 1919, ma già nel 1923 divennero orario legale con il governo… Mussolini. Certo stava cambiando la struttura produttiva, la catena di montaggio moltiplicava la produttività oraria garantendo maggior profitto in minor tempo. Ma insieme era cambiata la sovrastruttura culturale: orari ridotti divennero dapprima “pensabili” e al fine ordinari, anche quando il fascismo represse il sindacato e allontanò il fantasma bolscevico.
Sarà un altro shock, la Grande depressione dal 1929, a riportare al centro del dibattito pubblico la riduzione degli orari, caldeggiata come strumento di rilancio del capitalismo non solo da J.M. Keynes, ma da un rilevante fronte padronale, ad esempio il presidente FIAT Giovanni Agnelli.
I sociologi del futuro analizzeranno stupefatti come nel 2020 le 8 ore fossero ancora concepite come il modello lavorativo ordinario, dopo un secolo di sbalorditive rivoluzioni industriali, tecnologiche, sociali. Il sistema produttivo si è radicalmente modificato, è esplosa la disoccupazione strutturale e ancora più la sotto-occupazione dei lavoretti, ma l’unica risposta emersa è il reddito di base, per alleviare le conseguenze peggiori. La cornice concettuale dentro cui pensiamo il lavoro è rimasta ferma.
Proposte avanzate negli anni recenti per ridurre gli orari sono praticabili e realistiche, moderatamente riformiste più che rivoluzionarie. Eppure non se ne parla, non “bucano” il dibattito pubblico, nemmeno quello sindacale in verità. Il frame dominante non viene scalfito: è un tema vecchio, Bertinotti, costa troppo, in Francia non ha funzionato (non è vero), sarebbe bello ma ci sono cose (sempre) più urgenti.
Apparirà ora più chiara la finestra di opportunità che si è aperta: stanno vacillando sia i paradigmi concettuali sia le conseguenti politiche economiche che hanno governato l’Italia e l’Europa negli ultimi decenni, moltiplicando ingiustizie e sofferenze.
Grande è la confusione sotto al cielo, e l’ipocrisia: i carnefici della sanità e dei servizi pubblici invocano lo Stato, i cantori dell’austerità le politiche espansive, vacillano perfino i dogmi europeisti e si affaccia l’indicibile, l’implosione dell’Euro e dell’Unione a traino tedesco.
Fiumi di denaro saranno immessi nell’economia reale, soprassedendo ai sacri dogmi su deficit e debito. Certo le modalità adottate per affrontare la recessione potranno tradursi in ulteriore svendita del patrimonio pubblico, impoverimento dei lavoratori, rapina della residua ricchezza immobiliare e mobiliare delle famiglie.
È dunque decisivo il ruolo di indirizzo che sapranno imporre le forze sociali organizzate, innanzitutto il sindacato.
Veniamo al punto: ci sono in questi giorni, pochissimi giorni, le due condizioni necessarie per avviare un Piano nazionale di riduzione e distribuzione dei tempi di lavoro.
C’è la condizione economica: la possibilità di investire denaro pubblico per avviare la transizione verso una nuova organizzazione del lavoro e consolidarla fino a farla diventare ordinaria, predisponendo fin da ora le opportune leve di incentivo/disincentivo fiscale e contributivo. La mera estensione di congedi, cassa integrazione, bonus reddituali è doverosa nell’emergenza, ma non determina cambiamenti strutturali.
C’è la condizione “simbolica”, una nuova cornice di senso: la drammaticità reale e percepita del momento palesa che non ci si può affidare a ricette logore o pavide, ma occorre osare qualcosa di nuovo e di ambizioso. Soprattutto, il discorso pubblico è già permeato dai media con messaggi di due tipi, complementari: paura individuale e speranza collettiva. I sacrifici richiesti oggi e i timori per il futuro che “non sarà più come prima” vengono alleviati dal senso di comunità (i canti dal balcone e le bandiere) e dalla solidarietà come strumento per uscire dalla crisi (la riconoscenza per l’abnegazione dei lavoratori della sanità, stare a casa per non contagiare altri, i volontari che portano la spesa, gli aiuti e gli studi internazionali condivisi).
Poco importa qui sviscerare autenticità o pervasività di tali sentiment. Un Piano di distribuzione del lavoro si sintonizzerebbe con entrambi, al cuore della maggioranza dei cittadini, risponderebbe alla paura di perdere il lavoro o di non ritrovarlo con un progetto collettivo di solidarietà oggi più che mai comprensibile e condivisibile. Perfino qualche sacrificio salariale apparirebbe più accettabile dopo aver lottato per preservare la salute e sospendere tutte le attività non essenziali anche a costo di guadagnare di meno. Settimana corta di 32 ore, 35 ore orizzontali, fascia oraria modulabile in ogni settore e impresa (30-35 ore)… le proposte pratiche dovranno essere valutate nei dettagli, ma è il minore dei problemi una volta affermata la nuova cornice.
Sappiamo che la riduzione degli orari non genera una distribuzione aritmetica del lavoro, che molte imprese avevano già una sovra-capacità produttiva, aggravata ora dal calo degli ordini, e non assumeranno nuovo personale nell’immediato. Permarrà la necessità di creare occupazione buona e utile, a partire dal settore pubblico martoriato, ma si eviterà la catastrofe sociale e si potrà di nuovo indicare ai lavoratori impauriti e speranzosi l’obiettivo e il percorso per la piena occupazione.
Sappiamo inoltre che le crisi economiche sono anche fasi di rottura (disruption) che ridisegnano molto velocemente i sistemi e le catene produttive, nazionali e internazionali. Imprese arretrate e statiche soccombono, ma altre imprese dinamiche emergono, quelle in grado di innovare i prodotti (cosa si produce) e i processi (come si produce), adottando nuove tecnologie e modificando l’organizzazione del lavoro. L’imprenditoria italiana necessita già di credito (per liquidità e investimenti), ma reclama anche sgravi fiscali e contributivi senza condizioni, nella speranza di galleggiare riducendo i costi. Le risorse pubbliche andrebbero invece utilizzate per stimolare il cambiamento adattivo delle imprese, oggi più che mai indispensabile. I tempi di lavoro sono una dimensione chiave dell’organizzazione, un Piano di riduzione indurrà le imprese a esaminare e riprogettare le proprie attività, anche con investimenti mirati, stimolando il miglioramento dell’intero sistema produttivo nazionale, che senza politiche industriali pubbliche si stava impoverendo già ben prima del virus.
Non è realistico immaginare di tornare “come prima” dopo una crisi planetaria, ma nemmeno auspicabile, visto che prima c’erano già milioni di persone oppresse dalla povertà o dallo sfruttamento.
Se ne potrà uscire peggio di prima, ma anche meglio di prima, volgendo lo sguardo (la cornice) e i passi (le politiche) verso altri orizzonti. Succederà tutto nelle prossime settimane, deciderà come sempre chi saprà imporre la propria egemonia, prima di tutto culturale. Il movimento dei lavoratori ha valori storici e simboli potenti, in cui oggi molti possono tornare a riconoscersi, “grazie” al virus che li accomuna nelle paure e nelle speranze, al di là della frammentazione lavorativa che li ha divisi.
Il 1° Maggio è nato come giornata di lotta per la riduzione dei tempi di lavoro. Quelle radici possono cambiare gli esiti di questa crisi. Il 1° Maggio 2020, con le piazze vuote, vedrà lavoratori e lavoratrici in rassegnata attesa di salvatori della patria tra i propri nemici di classe, oppure già idealmente e collettivamente in marcia per la coraggiosa inversione di rotta che entra nei libri di storia?