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Sulla “distruzione creatrice” delle macchine

La diffusione delle nuove tecnologie legate alla robotizzazione e all’intelligenza artificiale ha prodotto una vera rivoluzione economica e sociale, con un impatto profondo e strutturale su occupazione e salari. Un intervento regolatore è necessario e urgente.

Il progresso tecnologico è sempre stato un argomento chiave in economia. Se da un lato ha permesso lo sviluppo economico, dall’altro la sua capacità di sostituire il lavoro umano con le macchine, con possibili perdite di posti di lavoro, ha sempre destato preoccupazioni. La maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che un periodo di disoccupazione segue l’introduzione di nuove tecnologie, mentre non c’è consenso sugli effetti a lungo termine.

Secondo i pessimisti la ridotta importanza del lavoro umano rispetto ai compiti automatizzati e l’impossibilità di assorbire la forza lavoro in eccesso in opportunità di lavoro alternative sono prevalenti. Gli effetti sul risparmio di lavoro innescati dalle nuove tecnologie sono previsti superiori rispetto alla creazione di nuovi posti di lavoro. Per gli ottimisti invece, la produttività, l’occupazione e i salari aumenteranno, innescando effetti positivi sul benessere e sulla distribuzione della ricchezza, riducendo infine il divario tra le classi superiori e inferiori.

Nonostante l’evidenza che i miglioramenti della tecnologia non hanno comportato necessariamente una disoccupazione tecnologica (almeno nel lungo termine), perché la robotizzazione e l’Intelligenza Artificiale (IA) dividono nuovamente il dibattito accademico e politico tra pessimisti e ottimisti? L’aumento dell’automazione sta avvenendo in un periodo di crescente disuguaglianza economica, scomparsa del ceto medio, precarizzazione del lavoro e retribuzioni bloccate. Questo rafforza i timori della disoccupazione tecnologica di massa e porta con sé una rinnovata richiesta di sforzi politici per affrontare le conseguenze del cambiamento tecnologico che potrebbe portare al sorgere della cosiddetta “classe inutile” di umani che non sono in grado di lavorare perché le loro professioni sono diventate obsolete e la loro riconversione è non profittevole.

Dopo la crisi del 2007, nonostante quanto sostiene l’OECD – “i mercati del lavoro sono tornati ai livelli pre-crisi in termini di quantità di posti di lavoro, con solo alcune notevoli eccezioni” –, questa tendenza è stata accompagnata da una percentuale più elevata di posti di lavoro di scarsa qualità (vale a dire posti di lavoro occasionali e precari), che limitano la crescita salariale dei cosiddetti “lavoratori poveri”, vale a dire persone con lavori a basso reddito, i cui redditi scendono spesso al di sotto della soglia di povertà.

A differenza delle rivoluzioni industriali precedenti – quando si stima che il 10-20% dei lavori scompariva, ma almeno il doppio veniva creato – oggi si pensa che il 50-70% dei lavori siano a rischio e che la domanda bassa provoca una stagnazione che non fa aumentare né i salari né l’occupazione. Assistiamo cioè ad un cambiamento strutturale dell’economia dove le macchine fanno molto meglio del lavoro in molti campi – dalla manifattura ai servizi avanzati. Una migliore e avanzata istruzione, così come un aggiornamento continuo del lavoro, rischiano solo di essere palliativi perché ormai costa meno produrre una macchina – che magari produce altre macchine – che sostituisce il lavoro anziché “aggiornare” il lavoratore.

L’espansione tecnologica, che ha determinato il successo del capitalismo, sta provocandone il ristagno, per tacere dei danni prodotti alla Natura. Per uscire da questa trappola occorre intanto riconoscere che il mercato non riesce a farlo da solo perché l’effetto di S. Matteo – a chi più ha, più verrà dato – porta a un potere di mercato bulimico a scapito del 99% della società. Se questa lettura è corretta, l’intervento regolatore della politica è necessario.

Come ripete spesso Stiglitz, le regole del gioco vanno cambiate nella direzione di limitare il potere di mercato, ossia la concentrazione del mercato indipendentemente dall’abuso di posizione dominante. Con i “big data” è sempre più facile far pagare ai singoli consumatori prezzi più alti e trasferire ricchezza verso l’alto. Con la rivoluzione tecnologica delle macchine, se la manifattura è il settore morente, i servizi avanzati – cioè chi possiede i robot e chi scrive gli algoritmi per farli funzionare – saranno i vincitori.

Occorre dunque un diverso approccio sia alla legislazione sulla proprietà intellettuale – magari da condividere dopo pochi anni, sia una proprietà co-operativa dei robot. Lo Stato dovrebbe poi – rifondando il sistema dell’istruzione – facilitare la trasformazione dell’economia dalla manifattura ai servizi favorendo gli investimenti nei settori chiave del futuro prossimo: dal recupero ambientale all’ICT, a quelli che il gruppo sulla complessità di Luciano Pietronero identifica come strategici. Non si tratta solo – come nella tradizione keynesiana – di fornire uno stimolo alla domanda, ma di cambiare le regole del gioco.

Da noi esiste comunque una via obbligata che passa attraverso il recupero dell’evasione fiscale – moneta elettronica, patrimoniale al 5% dei più ricchi e una non risibile tassa di successione –, la riqualificazione della spesa e una non più differibile redistribuzione del reddito – via tassazione progressiva e reddito di base finanziato dai robot. Tutto ciò potrebbe consentirci di lavorare di meno, a parità di reddito, magari con un part-time volontario.

Insomma: se le macchine e l’IA “rubano” a molti lavoro e reddito e a tutti domanda, o ci si inventa nuovi lavori o ne usciamo con politiche diverse per una economia diversa. Poi però uno legge i nomi di molti dei governanti degli ultimi 70 anni e gli passa la voglia di scrivere.