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Quanto costerà il vaccino contro il Covid-19?

Non si sa nulla sul vaccino contro il Covid-19, tranne che saranno le industrie farmaceutiche a metterlo sul mercato e fare profitti. Ma molti Stati hanno già investito grandi risorse, dalla ricerca di base ai test. Perché mai le conoscenze generate grazie al pubblico devono essere appropriate da privati?

Alla fine dello scorso febbraio Alex M. Azar, il Segretario di Stato per la Salute dell’amministrazione Trump, si presentò di fronte al Congresso degli Stati Uniti d’America per un’audizione sulle politiche che l’amministrazione intendeva adottare contro la probabile esplosione dei casi di Covid-19 negli USA e sul loro impatto sul budget dello Stato.

Nel corso dell’audizione il Segretario Azar, dopo aver dichiarato che un vaccino contro il Covid-19 potrebbe essere pronto per la sperimentazione tra 3 mesi (affermazione questa che gran parte della comunità scientifica ha bollato come irrealisticamente ottimistica) ha anche affermato: “Vorremmo offrire garanzie che questo vaccino sarà reso disponibile a prezzi accessibili, ma in realtà non possiamo controllare il prezzo perché abbiamo bisogno che il settore privato investa nella ricerca del vaccino”.

Di fronte a questa affermazione, 45 membri del Congresso hanno inviato il giorno dopo una lettera al Presidente Trump (la lettera è disponibile, oltre che su numerosi media, sui siti di alcuni dei firmatari, ad esempio qui) chiedendo che il Dipartimento della Salute non conceda alcuna licenza esclusiva per un vaccino o una cura contro il coronavirus a un’impresa privata se la ricerca che porta a queste cure è stata in parte finanziata da fondi pubblici.

Più in generale, la lettera sostiene che garantire diritti di monopolio su tali scoperte farmaceutiche potrebbe risultare in prezzi di vendita eccessivamente elevati, con conseguenze fortemente negative sulla salute pubblica e sul bilancio dello Stato. Nel caso questo prezzo eccessivo fosse effettivamente praticato, chiedono i firmatari, il governo dovrebbe intervenire e prendere tutte le misure necessarie a garantire che cure e vaccini siano disponibili a tutti a prezzi accessibili.

Il Segretario Azar da un lato e i firmatari della lettera dall’altro pongono una questione fondamentale: in un sistema capitalistico di mercato le imprese sono libere di investire risorse in ricerca e innovazione se e dove prevedono rendimenti elevati di questi investimenti. Pertanto, è la posizione di Azar, se vogliamo che le imprese farmaceutiche investano soldi, competenze, energie nella ricerca di vaccini e cure contro il Covid-19 dobbiamo promettere loro dei rendimenti elevati, cioè dobbiamo dar loro la possibilità di vendere le medicine e i vaccini a prezzi sostanzialmente più alti dei costi di produzione.

I nostri sistemi economici hanno creato e sviluppato un apposito strumento per garantire questi ritorni elevati agli innovatori: il brevetto. Il brevetto “premia” l’innovatore con un diritto di monopolio per alcuni anni (di norma 20) sullo sfruttamento dell’innovazione. Ma questo diritto di monopolio, sostengono i 45 firmatari della lettera, risulterà inevitabilmente (come sa qualsiasi studente del primo anno di economia) in prezzi elevati, quantità ridotte e una redistribuzione di benessere a danno del consumatore e a favore del produttore, il quale godrà di extra-profitti elevati e persistenti in quanto la competizione attraverso l’imitazione è vietata dalle norme che proteggono i brevetti.

Azar a questo punto però potrebbe sostenere che è vero che il monopolio garantito dai brevetti riduce il benessere dei consumatori della nuova medicina rispetto a un’ipotetica situazione in cui questa medicina fosse venduta in un regime concorrenziale. Ma, senza brevetto, probabilmente questa medicina non esisterebbe affatto perché nessuna impresa investirebbe in un’innovazione che i concorrenti potrebbero facilmente imitare. L’imitatore infatti potrebbe vendere a prezzi più bassi dell’innovatore, visto che i costi di imitazione sono molto inferiori ai costi di scoperta.

Pertanto, aggiungerebbe Azar, il vero confronto che dobbiamo fare non è tra benessere dei consumatori in monopolio e in concorrenza, cioè tra un vaccino venduto a prezzo di monopolio o al prezzo molto inferiore di concorrenza, ma tra un vaccino venduto ai prezzi alti di monopolio e nessun vaccino. Il monopolio e i prezzi alti sarebbero dunque una sorta di inevitabile male minore, un prezzo che la società deve pagare per avere le cure e i vaccini che altrimenti non avrebbe.

Chi ha ragione? Azar o i firmatari della lettera? A mio avviso i firmatari della lettera, per almeno due ordini di motivi. In primo luogo Azar solleva un problema reale, come incentivare in un’economia di mercato la produzione di innovazioni da parte di imprese private, ma dà per scontato che i brevetti siano la migliore soluzione di questo problema. In secondo luogo dà per scontato che il mercato sia la modalità economicamente e socialmente migliore per risolvere un problema come quello di trovare cure e vaccini che blocchino o quanto meno riducano gli effetti di una pandemia come quella causata dal Covid-19.

I brevetti

Il XV secolo vide un’imponente ondata migratoria da Bisanzio verso l’Europa e, in particolare, verso Venezia. Fra i migranti vi era un gran numero di artigiani, ingegneri e artisti. Con lo scopo di favorire e incoraggiare la permanenza a Venezia degli uomini di ingegno in grado di favorire e aumentare il potere e il benessere della città, il Senato di Venezia promulgò nel 1474 il primo statuto sui brevetti.

Fu stabilito che chiunque avesse fissato la propria residenza a Venezia per un periodo di tempo sufficientemente lungo e avesse inventato qualcosa di utile e nuovo avrebbe avuto garantito dalle istituzioni il diritto ad essere l’unico a sfruttare commercialmente l’opera del suo ingegno per 10 anni. Allo stesso tempo, l’inventore avrebbe dovuto sottoscrivere l’impegno a rivelare i particolari tecnici della sua invenzione prima di poter lasciare la città.

Lo statuto veneziano ci permette immediatamente di cogliere il senso dei brevetti come istituzione sociale: diritto allo sfruttamento commerciale di una scoperta in cambio di impegno a renderla pubblica. Ma a partire dalla rivoluzione industriale e soprattutto negli ultimi decenni i brevetti hanno mutato profondamente la loro natura, diventando diritti di proprietà intellettuale.

Ha senso conferire dei diritti di proprietà, seppure di durata limitata (ma 20 anni sono un tempo molto lungo nella vita di una innovazione) sulle innovazioni, cioè su nuove conoscenze? La risposta è no. La proprietà conferisce un diritto di esclusione: se sono proprietario di un terreno agricolo nessuno può sfruttarlo senza il mio permesso. Questo diritto di esclusione, dicono gli economisti, serve a evitare problemi di eccessivo sfruttamento della risorsa che si verificherebbero se la risorsa fosse accessibile a tutti. La soluzione è conferire un monopolio dello sfruttamento a un unico soggetto.

Ma se parliamo di conoscenza questo argomento non sta in piedi. La conoscenza non è una risorsa esauribile come un terreno agricolo o il pesce nel mare e quindi non è soggetta ad alcun rischio di eccessivo sfruttamento. Anzi la conoscenza tipicamente progredisce in modo cumulativo e quindi la condivisione ne favorisce la crescita. Non a caso la scienza e la cultura occidentali da millenni progrediscono grazie al meccanismo di pubblicazione e condivisione reciproca, cioè un meccanismo istituzionale opposto alla proprietà, all’esclusione, al monopolio. Questo è vero per la conoscenza scientifica, così come per quella tecnologica (ammesso che la divisione oggi abbia ancora un senso).

Usare il diritto di esclusione per garantire la remunerazione dell’innovatore non ha senso, perché crea una scarsità artificiale in una risorsa che scarsa non è, e che anzi tende ad aumentare e migliorare al crescere del numero di coloro che la condividono. In secondo luogo la proprietà crea sempre un monopolio, con i relativi costi sociali che ne derivano. Ora, se questo monopolio riguarda ad esempio un terreno agricolo di piccole o medie dimensioni i costi sociali non saranno molto rilevanti perché vi saranno altri terreni simili e altrettanto produttivi. Se invece il monopolio è dato su una importante scoperta o innovazione che è per definizione unica e non ha sostituti, il costo sociale derivante dal monopolio sarà molto elevato.

A questo proposito si può sostenere il mercato farmaceutico è probabilmente quello in cui i danni sociali prodotti da un monopolio sono i più alti possibili. Sostengo questo per due motivi. In primo luogo il mercato farmaceutico non esiste, almeno se lo cerchiamo dal lato della domanda, ma esistono tanti sotto-mercati quante sono le patologie; e questi sotto-mercati sono spesso totalmente separati. Questo in genere non avviene in altri mercati che sono sì segmentati ma dove i beni venduti in ogni segmento sono parzialmente sostituibili con beni di altri segmenti o addirittura di mercati diversi.

Se ad esempio la Fiat avesse un monopolio delle auto di piccola cilindrata sicuramente potrebbe alzarne il prezzo, ma alzandolo troppo inizierebbe a subire la concorrenza dei produttori di medie cilindrate, e forse i consumatori comprerebbero meno auto e deciderebbero di spostarsi con altri mezzi. Nella farmaceutica in genere non funziona così: se io devo vaccinarmi contro il Covid-19 ho bisogno di questo vaccino e quello, ad esempio, contro il morbillo è totalmente inutile. Pertanto nella farmaceutica, specialmente per patologie gravi e importanti e per medicine veramente efficaci, il potere di monopolio è molto più forte che in altri settori perché i sotto-mercati sono naturalmente impermeabili alla concorrenza proveniente da altri sotto-mercati.

In secondo luogo l’elasticità della domanda (cioè la sensibilità della quantità domandata al prezzo) per medicine importanti, salva vita o comunque in grado di frenare o curare malattie ad alto impatto individuale e sociale, è certamente molto bassa. Per queste medicine l’individuo e/o un sistema sanitario sono disposti a pagare anche prezzi molto elevati e la riduzione di domanda causata da un aumento di prezzo sarà nulla o trascurabile.

In conclusione il settore farmaceutico è un vero e proprio paradiso del monopolista e quindi un potenziale inferno per il consumatore. È quindi veramente sorprendente che nei nostri sistemi economici esistano da un lato delle legislazioni e delle autorità anti-trust che vietano e puniscono comportamenti monopolistici, e dall’altro legislazioni a protezione dei brevetti che creano monopoli proprio dove i monopoli possono essere maggiormente dannosi per la collettività.

In realtà questa apparente schizofrenia dei nostri sistemi ha una spiegazione ovvia: i governi e i legislatori degli Usa e dei Paesi occidentali in generale hanno servito negli ultimi decenni gli interessi delle imprese farmaceutiche molto meglio degli interessi del pubblico. E infatti abbiamo un sistema brevettuale che è sostanzialmente disegnato sulle necessità di queste imprese.

Nel caso di Alex Azar, per comprendere da quale parte si schiera nel conflitto tra le imprese e il pubblico è sufficiente leggere la sua biografia: prima di andare a dirigere il Dipartimento per la Salute (in Italia diremmo prima di diventare Ministro della Salute) nell’amministrazione Trump, Azar, giurista di formazione, proveniva da una brillante carriera di lobbista e poi presidente di Eli Lilly and Co., una della più grandi multinazionali farmaceutiche (nel 2019 ha fatturato quasi 25 miliardi di dollari) e sedeva anche nel consiglio di amministrazione della Biotechnology Innovation Organization, la più grande agenzia mondiale che rappresenta gli interessi dell’industria delle biotecnologie.

Infine questa estrema protezione degli interessi delle imprese non sembra avere neppure creato i benefici in termini di innovazione che i suoi difensori ipotizzano. Il tasso di innovatività del settore è secondo molti studi empirici in declino, e in molti campi importanti per la salute pubblica gli investimenti e le innovazioni sono scarsi o inesistenti da molti anni.

Pubblico-privato

Il secondo errore di Azar riguarda la implicita assunzione che la soluzione al problema della ricerca di una cura e di un vaccino contro il Covid-19 possa essere trovata solamente nel mercato. Questa affermazione è errata empiricamente. Infatti è noto a tutti che nei processi di scoperta, sviluppo e test pre-clinici e clinici di nuove medicine i finanziamenti pubblici svolgono sempre un ruolo fondamentale.

Anche nel caso del coronavirus le casse statali di molti Paesi hanno già investito cifre ingenti e i centri di ricerca e gli ospedali pubblici avranno un ruolo fondamentale nella ricerca di base, nello sviluppo e nei test. Non si capisce quindi il motivo per cui conoscenze generate con l’essenziale contributo del contribuente debbano essere interamente appropriate da imprese private. In questo modo il contribuente paga due volte la ricerca, finanziandola e poi pagandone a prezzo di monopolio la medicina che ne risulta.

Ma l’affermazione è, a mio avviso, anche discutibile in linea di principio. Perché i grandi problemi sanitari che generano costi sociali enormi e hanno impatti giganteschi sulle finanze pubbliche non dovrebbero essere affrontati con grandi programmi pubblici che producano conoscenze e innovazioni da mettere poi a servizio del benessere collettivo a prezzi non più alti dei costi di produzione? Sono stati finanziati generosamente programmi per andare sulla luna o per indagare la struttura dell’atomo, perché non dovremmo promuovere programmi analoghi per curare il Covid-19 e altre importanti malattie a forte impatto sociale?

Questi grandi progetti possono e devono coinvolgere attori privati, sia perché questi hanno conoscenze fondamentali sia perché è bene promuovere una pluralità di approcci. Ma gli attori privati devono essere “subcontractors” del progetto pubblico e remunerati come tali, al contrario di ciò che avviene ora, quando abbiamo i progetti pubblici al servizio delle imprese private.