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L’ambiente ai tempi della pandemia

La pandemia di coronavirus evidenzia, ancora una volta, lo stretto legame tra tutela dell’ecosistema e della salute. Si tratta di priorità da perseguire insieme invece di contrapporre emergenza sanitaria, economica e ambientale: l’Italia e l’Europa devono compiere scelte chiare, nette e responsabili.

Mentre il governo italiano si appresta a chiedere un segnale forte dall’Europa con l’emissione di eurobond per aumentare il grado di corresponsabilità nella gestione del debito pubblico degli Stati membri ed è stato sospeso il cosiddetto Patto di stabilità comunitario, bisogna cercare di coniugare l’imponente sforzo antirecessivo con l’innovazione e la capacità di perseguire una netta discontinuità con i vecchi modelli di intervento pubblico nelle economie reali.

Sarebbe infatti molto discutibile se, garantito il sostegno straordinario indispensabile alla tenuta dei sistemi sanitari nazionali e per impedire che il sistema produttivo collassi, ci si dimenticasse che per conseguire l’efficienza e l’innovazione utili al futuro delle nostre economie è necessario mantenere e implementare gli obiettivi e gli strumenti del rilancio dell’economia continentale declinati dalla Commissione Europea nel pacchetto di interventi dell’European Green Deal.

È opportuno infatti che in Italia e in Europa non si affermi la tendenza di contrapporre artificiosamente un’emergenza (quella sanitaria) all’altra (quella ambientale) per rivedere tutte le priorità e tornare a perseguire scelte business as usual. Dobbiamo invece saper leggere le evidenti e inscindibili connessioni tra la pandemia in atto e il degrado ambientale provocato da scelte economiche che hanno avuto e stanno avendo ricadute drammatiche sui sistemi naturali, sulla nostra salute e la nostra esistenza.

È proprio in questo tempo sospeso e dolente in cui il nostro paese è particolarmente colpito, che il WWF ha ritenuto necessario pubblicare lo scorso 14 marzo il report “Pandemie, l’effetto boomerang della distruzione degli ecosistemi. Tutelare la salute umana conservando la biodiversità”, quale strumento per favorire le connessioni necessarie nella riflessione della nostra classe dirigente, ma anche di tutti/e noi.

Si tratta di un report che ha avuto grande diffusione e risonanza sui media mainstream e sui social italiani, che verrà tradotto in varie lingue a cura del network internazionale del WWF e che ha lo scopo di offrire, ora o mai più, una presa di coscienza condivisa sulla necessità di una visione olistica dell’interconnessione tra i sistemi naturali e la loro interazione. Nel report vengono argomentate una serie di semplici, ma non scontate, considerazioni:

  • esiste un legame strettissimo tra le malattie che stanno terrorizzando il Pianeta e le dimensioni epocali della perdita di natura. Molte delle malattie emergenti – come Ebola, Aids, Sars, influenza aviaria, influenza suina e il nuovo coronavirus SARS-CoV-2 (Covid-19) – non sono catastrofi del tutto casuali, ma la conseguenza indiretta del nostro impatto sugli ecosistemi naturali.
  • La comparsa di nuovi virus patogeni per l’umanità, precedentemente circolanti solo nel mondo animale, è un fenomeno ampiamente conosciuto come spillover. In ecologia ed epidemiologia lo spillover – che si potrebbe tradurre con “tracimazione” – indica il momento in cui un patogeno passa da una specie ospite a un’altra, e si pensa che questo passaggio possa essere alla base anche dell’origine del nuovo coronavirus.
  • Gli ecosistemi naturali hanno un ruolo fondamentale nel regolare la trasmissione e la diffusione di malattie infettive come le zoonosi (malattie infettiva degli animali trasmettibile alla specie umana) e quindi nel sostenere e alimentare la vita, compresa quella della nostra specie: globalmente gli scienziati sono consapevoli che tra le cause della diffusione di malattie infettive emergenti vi siano fattori importanti come la perdita di habitat, la creazione di ambienti artificiali, la manipolazione e il commercio di animali selvatici, e più in generale la distruzione della biodiversità. 

Non possiamo illuderci che l’incisività della risposta sanitaria e l’entità delle operazioni di sostegno all’economia reale, alla moneta comune e alla finanza portino di per sé al superamento delle problematiche di fondo che caratterizzano la condizione umana, il nostro modello di sviluppo e la nostra vita sociale per come l’abbiamo sinora costruita.

Nel report del WWF viene chiaramente ricordato che l’impatto della specie umana sugli ecosistemi naturali ha oggi modificato in modo significativo il 75% dell’ambiente terrestre e circa il 66% di quello marino, mettendo a rischio di estinzione circa 1 milione di specie animali e vegetali. Alcune conseguenze dell’azione umana sul Pianeta e sugli ecosistemi portano credibilmente a:

  • l’aumento dei siti di riproduzione dei vettori delle malattie;
  • la perdita di specie predatrici e la diffusione amplificata degli ospiti serbatoio;
  • i trasferimenti di patogeni tra specie diverse;
  • i cambiamenti genetici indotti dall’uomo di vettori di malattie o agenti patogeni (come la resistenza delle zanzare ai pesticidi);
  • la contaminazione ambientale con agenti di malattie infettive.

Nel concreto questo ci deve far riflettere su come viene gestito, ad esempio, il nostro patrimonio forestale e su quanto sia ancora tollerabile dare mano libera (come sta succedendo nel Brasile del presidente Bolsonaro) al saccheggio dell’Amazzonia per favorire monocolture agricole e zootecniche industriali, oppure abbattere alberi indiscriminatamente per insediare attività estrattive o realizzare infrastrutture stradali.

Le foreste ospitano milioni di specie in gran parte sconosciute alla scienza moderna, tra cui virus, batteri, funghi e altri organismi – molti dei quali parassiti e nella maggior parte dei casi benevoli – che non riescono a vivere al di fuori del loro ospite e non fanno troppi danni. Il cambiamento di uso del territorio e la conseguente deforestazione portano la popolazione umana a un contatto più stretto con l’insorgenza dei virus. I virus di Ebola, febbre gialla, leishmaniosi o Hiv si sono adattati alla specie umana a partire dalla variante presente nelle scimmie delle foreste dell’Africa Centrale.

A proposito di interconnessioni, nel report del WWF si evidenzia come tre quarti (75%) delle malattie umane fino ad oggi conosciute derivano da animali, e la maggior parte (60%) delle malattie emergenti sono trasmesse da animali selvatici. Il commercio di specie selvatiche (wildlife traffic), come insegna l’individuazione del primo focolaio della pandemia di Covid-19 nel mercato degli animali selvatici a Wuhan in Cina, e il diretto contatto con parti di animali attraverso lo scambio di liquidi espone la specie umana a virus o altri agenti patogeni di cui quell’animale può essere ospite.

È inutile costruire una distanza fittizia, favorita da semplificazioni dal sapore razzistico, relegando ad esempio il rapporto causa-effetto della diffusione di quest’ultima pandemia alle diverse abitudini alimentari o agli stili di vita, se si pensa che – a proposito di gestione sostenibile del patrimonio forestale – l’Unione Europea è stata il principale importatore di prodotti collegati alla deforestazione, tra il 1990 e il 2008, causando una zona di deforestazione di dimensioni almeno pari a quelle del Portogallo. E se si considera che arrestare la deforestazione, consentendo la ricrescita delle foreste, potrebbe soddisfare almeno il 30% di tutte le azioni di mitigazione necessarie per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C.

Nel chiedere che finalmente si abbia un’Europa politica – anche a causa dell’accelerazione indotta da questo shock che fa oggi del vecchio continente il maggiore focolaio di Covid-19 al mondo – bisogna ricordare come si fa nel report del WWF quale sia la nostra responsabilità nell’essere un riferimento globale nel bene (l’Unione Europea ha la normativa e gli standard ambientali più avanzati al mondo) e nel male (elevatissima impronta ecologica).

A tal proposito, come viene ricordato nel position paper prodotto dell’European Policy Office del WWF in occasione delle ultime elezioni europee, se tutti nel mondo adottassero gli stili di vita di un cittadino europeo, il mondo avrebbe bisogno di 2,6 pianeti per sostenere tale modalità di produzione e di consumo. L’Unione Europea è quindi fortemente dipendente dal capitale naturale e dalle risorse di altri paesi, esternalizzando di fatto gran parte della sua impronta ambientale ed esponendosi agli impatti dell’instabilità e della volatilità nelle regioni del mondo da cui si approvvigiona di materiali e prodotti di base.

È per questo che è stata salutata con favore la centralità data sin dall’inizio della sua esperienza dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen alla questione ambientale come priorità nei primi cento giorni del nuovo governo europeo. Ed è per questo che sono valutate positivamente le linee di intervento dello European Green Deal (EGD) illustrate nella Comunicazione della Commissione Europea (CE) presentata l’11 dicembre 2019.

Nella comunicazione CE sull’EGD si dichiara l’obiettivo del conseguimento della neutralità climatica (emissioni zero di Co2) dell’Unione Europea entro il 2050 da rendere vincolante per legge; una riduzione delle emissioni di gas serra del 50-55% entro il 2030; un piano per il ripristino dei sistemi naturali europei danneggiati dalle attività umane; la creazione di un Fondo per la Giusta Transizione verso un modello economico low carbon, destinato a interventi per garantire la resilienza dei sistemi naturali colpiti dai cambiamenti climatici.

Al momento dell’uscita della Comunicazione della CE si è stato sottolineato subito dalle Ong ambientali europee che ci potevano essere margini di miglioramento, come ad esempio anticipare la neutralità climatica di dieci anni, al 2040, e abbattere le emissioni di gas serra del 65% al 2030: ma, certamente, un primo segnale era stato dato.

Il senso di urgenza e l’impressione che finalmente ci si voglia finalmente incamminare verso una revisione dal paradigma produttivista e dissipativo delle risorse naturali era già diventato palpabile su scala europea: tanto che la stessa Banca Europea degli Investimenti (BEI) aveva annunciato, comunicandolo già dal 15 novembre 2019, di non voler finanziare più a partire dal 2021 progetti riguardanti la produzione di energia da combustibili fossili, e di voler passare entro il 2030 dal 25% al 50% del totale degli investimenti da destinare alla transizione verde.

A questo quadro si aggiunge il 14 gennaio scorso il Piano di Investimenti per l’EGD presentato dalla Commissione Europea in cui si prevede di movimentare 1.000 miliardi di euro in 10 anni così composti: 503 miliardi di euro dal budget europeo; 25 miliardi di euro derivanti dai proventi delle aste ETS; 100 miliardi di euro per il nuovo Fondo EU per la Giusta Transizione; 114 miliardi di euro dal co-finanziamento degli Stati membri; 279 miliardi di euro di finanziamenti pubblico/privati per il perseguimento di obiettivi climatici e ambientali.

Ma la tendenza a contrapporre artificiosamente l’emergenza ambientale e quella sanitaria emerge in Italia il primo marzo scorso durante la trasmissione “Mezz’ora in più” di Raitre, in occasione della quale il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, sollecitato dalla conduttrice Lucia Annunziata, ha illustrato quale a suo giudizio fosse l’aspetto saliente dei contenuti del Patto tra sindacati confederali e Confindustria per il rilancio dell’economia nell’epoca del coronavirus a pochi giorni dall’incontro del 4 marzo tra Governo e parti sociali a Palazzo Chigi.

Di fronte a un imbarazzato Maurizio Landini, segretario generale della CGIL – che ha tentato di ricondurre il confronto su un terreno più razionale e sostenibile – il presidente Boccia ha dichiarato il primo marzo, in sostanza, che l’Italia si deve fare portatrice in Europa di un piano pluriennale per le infrastrutture da 3.000 miliardi di euro, da mettere in campo subito invece di perseguire le priorità indicate dallo European Green Deal.

Mentre sul numero del 7-13 marzo del prestigioso settimanale “The Economist” si legge l’editoriale che conclude le pagine dedicate all’Europa, sono riportate le pressioni che il governo tedesco della cancelliera Angela Merkel sta subendo anche in questi giorni da parte in particolare della lobby delle aziende automobilistiche (le stesse del dieselgate).

Aziende che chiedono al proprio paese di abbandonare le politiche green che hanno caratterizzato sinora il governo federale di centro-destra, lanciando così un segnale alla stessa presidente della CE von der Leyen, prima presidente tedesca della Commissione Europea da 50 anni a questa parte. Né si deve dimenticare la riluttanza dei paesi dell’est Europa che hanno dato vita al cosiddetto Gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) ad aderire alle scelte ambientali più avanzate dell’Unione Europea.

È bene, quindi, d’ora in poi, vista l’aria che tira in diversi Paesi, valutare con attenzione il contenuto degli strumenti messi in campo dalla CE per l’EGD e non allentare la pressione sui parlamentari europei e sui governi nazionali perché contribuiscano al loro miglioramento e non alla loro disattivazione.

Infatti, il 4 marzo è stata presentata dalla CE la proposta di Climate Law, che finalmente dichiara in una normativa comunitaria l’obiettivo del conseguimento della neutralità climatica dell’Europa (zero emissioni di Co2) al 2050, ma manca di indicare quali siano le misure più urgenti per abbattere subito le emissioni e di chiarire se al 2030 si avrà un taglio del 65% dei gas serra.

Il 10 marzo è stata presentata, inoltre, la nuova Strategia industriale europea in cui viene chiesto a settori industriali chiave ad alte emissioni – quali quelli dell’acciaio, della chimica e del cemento – di contribuire al conseguimento dell’obiettivo della neutralità climatica dell’Europa al 2050 e di dare la priorità all’efficienza energetica, ma nella quale non si indicano obiettivi intermedi e a lungo termine a cui le aziende si devono attenere.

L’11 marzo, infine, è stata la volta della pubblicazione del nuovo Piano di Azione per l’economia circolare, che ha il pregio di sottolineare la necessità di un nuovo schema di intervento per una “politica dei prodotti sostenibili” e obiettivi di prevenzione del rifiuto, ma ha il difetto di non indicare impegni generali di riduzione dell’impronta materiale dell’Europa. Vengono poi rimandate al 29 aprile, dalla fine di marzo, le presentazioni della nuova Strategia della filiera agroalimentare (farm to fork) e la Strategia europea sulla Biodiversità al 2030.

In conclusione, l’Europa è chiamata a un grande atto di responsabilità nei confronti del mondo nell’anno in cui rilevantissimi impegni in campo ambientale – il Summit ONU dei Capi di Stato e di Governo su Biodiversità e Sviluppo Sostenibile di settembre, la Conferenza delle Parti – COP 15 della Convenzione sulla Biodiversità di ottobre, la COP 26 della Convenzione sul Clima di dicembrerichiedono il suo apporto per la definizione di un “New Deal for Nature and People” al fine di costruire le basi di un nuovo patto sociale per lo sviluppo sostenibile che permetta di contrastare efficacemente e contestualmente i cambiamenti climatici e la perdita di biodiversità.

Un atto di responsabilità ancora più rilevante, nel momento in cui il vecchio continente è colpito pesantemente dalla pandemia provocata dal Covid-19, nel rendere evidente la consapevolezza che l’emergenza sanitaria e quella ambientale sono e devono restare inscindibili, perché si deve fare lo sforzo di agire ora per cominciare a rompere il circolo vizioso di azioni e retroazioni indotte dall’umanità sui sistemi naturali di questo nostro pianeta.

* Stefano Lenzi, responsabile Ufficio relazioni istituzionali WWF Italia