Tratto comune a tutti i Paesi è che mentre il Pil cresce, il capitale naturale si deteriora. In era robotica poi si parla di disaccoppiamento tra crescita del Pil e dell’occupazione. L’ora di dire addio alla dittatura del Pil e di usare indicatori di benessere multidimensionali è suonata.
Come recita il titolo di un fortunato libro, il Pil è “una misura sbagliata della nostra vita”. Ora, a parte gli irriducibili mainstream (neo)liberisti, “ragionieri dell’economia” – la definizione è di Paolo Sylos Labini che così bollava chi considera solo i costi monetari e trascura gli altri – sono sempre più quelli che valutano il benessere come prodotto da vari domini.
Un tratto comune a tutti i Paesi è che mentre il Pil cresce, il capitale naturale si deteriora, come in una trappola evolutiva – una configurazione ambientale scelta da una specie perché sembra vantaggiosa nell’immediato, ma che nel tempo si rivela foriera di effetti negativi per la specie stessa. È un segno caratteristico dell’Antropocene – l’epoca geologica attuale in cui alle attività umane sono attribuite le cause principali delle modifiche territoriali, ambientali e climatiche – quello di produrre beni e servizi a scapito dell’ambiente, cioè di noi stessi. La giustificazione per decenni è stata quella del male necessario: se vogliamo avere più beni a disposizione o un lavoro che ci consenta una remunerazione monetaria per vivere, dobbiamo rinunciare ad un po’ di “verde”.
Ora però siamo di fronte a due nodi: 1) La quasi totalità degli scienziati ci dice che ci stiamo avvicinando al punto critico dell’ambiente, ovvero l’inquinamento sta superando la capacità di carico dello stesso; 2) il legame tra Pil e occupazione è assai indebolito, se non scomparso. Gli economisti parlano di “disaccoppiamento”, di crescita fredda: il Pil aumenta senza che ci sia creazione di nuova occupazione poiché la produttività continua a crescere grazie ai “robot” – e con essa i profitti – ma non i salari e gli occupati, provocando la scomparsa della classe media e il fenomeno di chi, pur lavorando, resta povero.
Se guardiamo al solo Pil e alla sua crescita dobbiamo riconoscere non solo che la sostenibilità è impossibile (l’entropia ci dice che non saremo mai in grado di produrre senza scorie che non potranno mai più rientrare nel ciclo produttivo – i processi di riciclo o recupero devono essere certo affiancati a processi produttivi meno inquinanti, e il mercato lo farà certo spontaneamente, ma semmai sotto la spinta dei consumatori – e di policy maker e imprenditori lungimiranti), ma che non abbiamo gli strumenti per affrontare le crisi attuali: quella ambientale e quella distributiva – di reddito, ricchezza e sfruttamento delle risorse naturali – all’origine dei fenomeni di populismo e nazionalismo che minano la democrazia. Occorre prendere coscienza che per risolvere i problemi abbiamo bisogno delle metriche adeguate. E il Pil non lo è, né invero era stato pensato per quello. Sembra ovvio all’uomo comune – ma non ai ragionieri dell’economia – riconoscere che il benessere non dipende solo dalla crescita del Pil, ma anche dalla società e dalla natura.
È necessario un cambio di paradigma: liberarci dall’assillo della crescita a tutti i costi. Acrescere non solo si può, ma si deve. Se il Pil crescesse al 4% l’anno, a vantaggio del solo 1% della popolazione mentre gli occupati fossero in diminuzione, dovremmo esserne contenti? E ancora: se l’economia entrasse in conflitto con l’ecologia, fino a che il collasso di questa determinasse la scomparsa della vita e dunque della prima, dovremmo preoccuparci? Mentre appare non più procrastinabile adottare produzioni ad impatto ambientale zero, che generino sprechi quasi nulli, il cambio “verde” è necessario, ma non sufficiente. Solo il progresso (l’aumento del benessere) e non la crescita (del Pil) è sostenibile.
Solo riconoscendo la natura multidimensionale del benessere – dove natura, economia e società convivono – la sostenibilità ha un senso. La Cappella Sistina o una sinfonia di Beethoven diretta da Ezio Bosso non vengono valutate nel Pil, ma hanno certamente aumentato il benessere dell’umanità; così come la ricerca scientifica e le ricadute nella speranza di vita dell’uomo. Occorre riconoscere che il nostro rapporto con l’economia va cambiato. Intanto dovremmo mirare al benessere e non alla massimizzazione del solo Pil. Smetterla quindi di cercare di dare un prezzo a tutto, ossia di assumere che il Pil sia la misura della nostra vita. Gli economisti dovrebbero essere “scienziati sociali”, riformatori utili. Ci si è accorti ora che la sostenibilità è importante. Bene. Ovvio che una crescita “verde” è meglio di una “grigio topo”. Ma entrambe prima o poi si fermeranno perché le leggi della fisica sono invalicabili ed è sensato parlare di “economia circolare” come lo è discutere del moto perpetuo.
Dobbiamo fare un passo ulteriore riconoscendo che il solo benessere, e non il Pil, può essere sostenibile. Coi loro modelli matematici astratti e di equilibrio – sarà il caso di ricordare che, per la scienza, un organismo in equilibrio è tale solo quando è morto? – gli economisti mainstream appaiono sempre più come quei collezionisti di eserciti in miniatura che con questi vogliono invadere la Grecia.