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La trappola del debito-PIL

Anni di liberismo hanno prodotto una disuguaglianza mai vista, blocco della mobilità sociale, salari reali stagnanti, precarietà, scomparsa del ceto medio, working poor, fino alla teorizzazione di effetti benefici di una flat tax e dell’austerità fiscale.

Giorgio Lunghini ha scritto che il neoliberismo è riuscito laddove anche le scienze fisiche hanno fallito: presentare le proprie “leggi” come verità inconfutabili, come se fossero una pura e diretta espressione della verità oggettiva e immodificabile della natura. In questo modo però l’economia “mainstream” è diventata sempre più un gioco intellettuale fine a se stesso senza conseguenze pratiche per la comprensione del mondo economico. Gli economisti hanno trasformato l’economia in una sorta di matematica sociale in cui il rigore analitico è tutto e la rilevanza pratica nulla.

Anni di liberismo hanno prodotto disuguaglianza mai vista prima, blocco della mobilità sociale, salari reali stagnanti, precarietà, scomparsa del ceto medio, working poor, fino alla teorizzazione di effetti benefici per tutti prodotti da una flat tax e crescita a seguito di politiche di austerità fiscale. La teoria economica viene costruita in modo assiomatico senza verificabilità empirica. Questo dà luogo a conclusioni di politica economica paradossali e giustifica – col criterio della ricerca del profitto – una visione dell’economia che Danovaro in Condominio Terra definisce “predatoria”, a scapito dell’ambiente e della società.

Un esempio è il debito pubblico. Il rapporto tra debito e PIL è in Italia pari a 132. Ma, mentre il debito per abitante è distribuito uniformemente – ogni abitante ha una quota di debito pari a qualsiasi altro individuo – il PIL, qualsiasi cosa misuri, è la somma di salari e profitti ed è distribuito in modo assai ineguale.

La domanda è: il rapporto vale per tutti? No. Per l’80% degli italiani è 500. Insostenibile! Il debito finisce per aggravare le disuguaglianze di reddito. Non è infatti vero che il debito non conta perché in media (e al netto degli stranieri) gli italiani sono debitori nella tasca sinistra di quanto sono creditori nella tasca di destra, poiché le tasche appartengono ad individui differenti: i “ricchi” – che sottoscrivono titoli di Stato – sono creditori ed i “poveri” – che pagano interessi sul debito – debitori. Così che c’è redistribuzione dai poveri ai ricchi.

Se ripetiamo lo stesso discorso per generazioni, area geografica e fedeltà fiscale, troviamo che il debito grava molto di più su giovani, onesti e “sudici”. I titoli di Stato sono detenuti da famiglie con alto reddito, residenti soprattutto nelle regioni del Centro-Nord, mentre le famiglie con più basso reddito depositano i propri risparmi soprattutto in buoni postali. Se fosse poi confermato quel che sostiene la Corte dei Conti – i trasferimenti di risorse pubbliche sono inferiori nel Mezzogiorno mentre la pressione fiscale è maggiore al Sud – le famiglie con più bassi redditi beneficiano poco dall’espansione del debito.

Le esperienze dell’Est Asia, del Sud America e della Grecia dimostrano che le politiche di austerità accrescono il rapporto debito/Pil; ma lo stesso avviene quando la spesa viene finanziata attraverso emissioni di titoli del debito pubblico quando, in assenza di monetizzazione, lo Stato dovrà finanziare la spesa con emissioni aggiuntive di titoli. Il che accade quando la stragrande maggioranza dei cittadini è gravata da un debito pubblico enorme rispetto al proprio reddito. A meno che l’interesse sul debito non sia zero o negativo. La riduzione del debito può avvenire, in un Paese dall’evasione fiscale così alta come l’Italia, attraverso il suo recupero – più che una possibilità è un dovere civico – che però la politica non sembra voler perseguire.

Prima di dichiarare la bancarotta dei “poveri” e, a seguire, quella dello Stato che possiamo fare? Per evitare di impiccarci all’albero degli oneri finanziari dovremmo riuscire nella missione impossibile (contro il pensiero mainstream della Troika e i sovranisti) di monetizzare il pagamento degli interessi sul debito.

Dalla firma del Trattato di Maastricht del 1992, l’Italia ha accumulato avanzi primari per 676 miliardi di euro. Ciò significa che le entrate fiscali sono state superiori alle spese, ma il sacrificio non è bastato, perché gli avanzi sono stati bruciati dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che nello stesso periodo è stata di 1.924 miliardi.

Potremmo utilizzare l’avanzo primario di bilancio per ridurre il debito – e magari investire (è ormai conclamato che il settore privato produce troppo di una cosa – ad es. inquinamento – e troppo poco di un’altra – ad es. ricerca). Il debito può essere ridotto anche attraverso una imposta patrimoniale che colpisca i “super-ricchi”, quell’1% della popolazione che detiene la stragrande maggioranza della ricchezza. E dobbiamo infine recuperare l’evasione – magari utilizzando le block-chain che ci consentirebbe di avere un’economia senza contanti evitando di passare attraverso il sistema bancario. Scelte che la politica economica dovrà prendere se vuole guardare al benessere di tutti – e non solo ai profitti – alla Natura ed aiutare i giovani italiani a casa loro cambiando un modo di produzione ormai superato.