Continuare a dire, come i governi degli ultimi 20 hanno fatto, che i nostri conti pubblici non ci consentono di disinnescare la “bomba sociale” innescata dalle riforme del sistema pensionistico è un errore. Ecco perché
Oramai da molti anni, nel nostro sistema previdenziale sta maturando una vera e propria “bomba sociale”. Nel suo assetto attuale, le giovani generazioni che oggi molto faticano ad entrare nel mondo del lavoro e anche i tanti quarantenni oppressi da rapporti lavorativi precari e remunerazioni scarse avranno una copertura pensionistica del tutto inadeguata. Questa tendenza prefigura un aggravamento delle prospettive economiche e una pericolosa incrinatura del patto intergenerazionale che molto contribuisce a sostenere la coesione sociale di qualsiasi società. La politica economica e la politica tout court stanno insistendo in scelte contrarie al benessere economico e sociale del nostro Paese e non si può continuare a rapportarsi alla “questione previdenziale” come fosse un problema congiunturale.
Le consistenti riforme della prima metà degli anni ’90 furono più che sufficienti a recuperare le pur gravi storture e gli squilibri finanziari che si erano accumulati negli anni precedenti; già nel 1996 e poi ininterrottamente dal 1998, il saldo annuale tra le entrate contributive e le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali sono tornate in attivo; nel 2008, raggiunsero 33 miliardi (2% del Pil) e nell’ultimo anno di cui si ha il dato, il 2015, è stato di 26 miliardi (1,7% del Pil). Le previsioni dicono che almeno nel prossimo decennio, nonostante l’invecchiamento della popolazione, il rapporto tra la spesa pensionistica pubblica e il Pil sia in calo. Ciò significa che un maggior numero di anziani riceverà una fetta del reddito corrente più piccola; il valore medio delle pensioni diminuirà rispetto a quello del salario medio (e del Pil pro capite), scendendo da circa il 45% attuale a circa il 32% nel 2035. La scelta economico-sociale fatta e confermata è quella di ridurre la partecipazione degli anziani alla distribuzione del reddito, il che riguarderà in misura crescente le generazioni che oggi arrancano nel mondo del lavoro e che tutti dicono di voler aiutare.
Il forte e crescente aumento dell’età di pensionamento deciso con la riforma Fornero – aggravato dal suo incongruo adeguamento automatico alla vita media attesa che la porterà a 67 anni dal 2019 – in un contesto di elevata disoccupazione, in particolare di quella giovanile, rappresenta un contro senso sociale ed economico; il quale viene ignorato in nome di interessi, di una visione puramente finanziaria e di una concezione economica che sono alla base della Grande Recessione iniziata nel 2007-2008 e che stanno ostacolando la possibilità di uscirne. Continuare a dire, come i governi di questi ultimi vent’anni hanno fatto, che i nostri conti pubblici non ci consento di disinnescare la “bomba sociale” che già molto è maturata, significa incorrere in una grave serie di errori.
In primo luogo, come si è ricordato, da circa un ventennio il sistema pensionistico sta già consistentemente contribuendo al complessivo bilancio pubblico, in una misura che mette a rischio la coesione sociale attuale e futura tra la popolazione attiva e quella a riposo. Costringere al lavoro chi già pensava che avrebbe potuto smettere e contestualmente ostacolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro non solo genera frustrazioni individuali contrapposte che gravano sugli equilibri sociali, ma peggiora la dinamica della produttività, le possibilità di innovare i processi produttivi, la capacità competitiva del nostro sistema produttivo e la crescita strutturale del reddito. Da molti anni l’Unione europea non ci invia più raccomandazioni di intervenire sul nostro sistema pensionistico; anzi ci fa presente che spendiamo poco per l’istruzione e le misure di sostegno al reddito. Purtroppo, nonostante sarebbe estremamente necessaria una politica di rilancio della crescita guidata proprio dall’Unione europea, Bruxelles ci spinge con forza a politiche fiscali restrittive (la “austerità”), ma la scelta di farlo agendo proprio sulle pensioni, con i suoi effetti sociali e distributivi, è fatta dai nostri governi; i quali dunque, non solo non resistono a quelle spinte controproducenti, ma le attuano nel modo peggiore e, in più, bruciano le scarse possibilità rimanenti al bilancio pubblico finanziando politiche costose e inefficaci come il Jobs Act che inseguono ancora la chimera di aumentare la competitività riducendo il costo del lavoro e aumentando l’instabilità sociale ed economica. Magari poi si fa la voce grossa, ma solo a parole, contro i vincoli posti dall’Unione, accrescendo il risentimento contro la costruzione europea la quale di problemi ne ha già molti di suo per come viene erroneamente perseguita, ma che, invece, andrebbe curvata verso politiche favorevoli alla crescita economico-sociale e di contrasto alla precarietà e alle diseguaglianze. In questa fase storica occorrerebbe essere anche molto audaci, in ogni campo, ma per fare qualcosa di… progressivo (che poi, almeno un tempo, era il compito della Sinistra) e non per rotolarsi nei luoghi comuni alimentati da interessi sempre più ristretti e retrivi.