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Istruzioni per salvare l’Italia e l’Europa

Rilanciare la domanda tramite investimenti in infrastrutture, nuove tecnologie, ricerca. Sono i punti suggeriti dal DIW di Berlino all’Italia nel suo Weekly Report dal titolo “Italy must foster high growth industries”. Ma sono sufficienti?

“È fondamentale che l’Italia ritorni sul sentiero della crescita, non solo per il suo stesso interesse ma per il successo dell’Unione europea a dell’area euro”. Si è occupato dell’Italia il centro studi di Berlino DIW (Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung) mettendo in evidenza come a più di dieci anni dalla crisi finanziaria che ha colpito duramente l’economia mondiale ed europea in particolare, l’Italia rimanga tra i Paesi peggiori in termini di performance economiche.

I dati sul PIL mostrano che l’Italia è ancora ben al di sotto dei livelli del 2007 e che il Paese è cresciuto meno rispetto a Spagna e Portogallo. Anche se con leggeri segnali di miglioramento, anche il mercato del lavoro rimane lontano dai valori precedenti alla crisi senza mostrare alcuna ripresa sostanziale. Consumi ed investimenti rimangono al di sotto dei livelli del 2007 insieme alla spesa pubblica, che dopo le politiche espansive immediatamente successive alla crisi, dall’inizio del 2011 è diminuita drasticamente fino a raggiungere livelli precedenti a quelli del 2007. Dal 2012 è da registrare l’aumento delle esportazioni nette, continua lo studio, probabilmente dovuto alla contrazione delle importazioni più che ad un aumento dell’export. C’è inoltre un forte problema di competitività rappresentato dall’elevato costo unitario del lavoro e legato alla bassa produttività, costo unitario del lavoro che è invece diminuito in Spagna e Portogallo, aggiunge lo studio.

Le politiche di austerità si sono dimostrate inefficaci, continua l’articolo. Il rapporto debito pubblico/Pil è aumentato dal 102 percento del 2007 al 130 percento del 2018 a causa delle dinamiche negative del Pil e degli elevati tassi di interesse sul debito. Questo, nonostante gli sforzi del Paese nel raccogliere avanzi primari da un elevato numero di anni (dai primi anni Novanta, ndr), cosa che nessun altro Paese nell’unione monetaria è stato capace di fare nello stesso periodo, precisa lo studio. 

Dopo il quadro macroeconomico, l’analisi si concentra sulla struttura produttiva del Paese e sulle dinamiche settoriali dell’economia italiana. Dati del 2017 mostrano che circa la metà degli occupati in Italia lavorano in aziende con meno di 10 dipendenti producendo all’incirca il 30 percento dal valore aggiunto dell’intera economia. Sono invece meno del 30 percento i dipendenti di aziende con meno di 10 occupati nell’Unione europea e 20 percento in Germania dove producono rispettivamente il 21 ed il 15 percento del valore aggiunto. Questo rappresenta un fattore di debolezza per l’economia italiana considerato come aziende medio-grandi siano mediamente più produttive, paghino salari migliori e rappresentino un fattore chiave per l’innovazione.

La base industriale del Paese è forte, sia in termini occupazionali che di valore aggiunto. Nel 2015, il valore aggiunto espresso in termini nominali del settore manifatturiero ha raggiunto i livelli precedenti alla crisi, e continua a registrare segnali positivi di crescita, specialmente nei settori della meccanica, dell’automobile, degli alimenti della chimica e della farmaceutica. Tuttavia, fa notare l’articolo, le dinamiche occupazionali continuano ad essere negative. Dal 2008 si sono persi 4.4 milioni di posti di lavoro con il segmento delle imprese con meno di 10 occupati profondamente colpito (1.5 milioni di posti di lavoro dal 2008 al 2017). Il settore delle costruzioni è stato particolarmente afflitto dalla crisi, dove il valore aggiunto nel 2017 è rimasto a 60 percento rispetto al 2007 e l’occupazione al 65 percento.

Nel settore dei servizi sono il commercio, i trasporti ed il turismo a trainare l’economia. L’Italia non investe invece in settori ad alto contenuto di conoscenza e tecnologia. Il numero di imprese start-up ad alto potenziale di crescita ed il loro numero di occupati è ben al di sotto della media europea. Dati della Banca Mondiale ripresi dagli autori (Ease of Doing Business Index) mostrano che le condizioni per fare impresa in Italia sono particolarmente svantaggiose. Si nota come in Italia l’accesso al credito sia particolarmente difficile (alla pari del Portogallo) e come il sistema di tassazione sia decisamente il meno vantaggioso tra i Paesi riportati nell’articolo. Un dato particolarmente scoraggiante è quello sulle infrastrutture digitali e sulle competenze informatiche. In base a dati della Commissione europea ripresi nell’articolo, l’Italia è uno dei Paesi meno avanzati dal punto di vista digitale. Peggio fanno solo Grecia, Romania e Bulgaria.

Quali sono le vie di uscita proposte dai ricercatori del DIW all’Italia? Il salario di cittadinanza, profondamente ridimensionato rispetto alla proposta iniziale non avrà molta efficacia sulla domanda. Sempre in base all’articolo, la riforma delle pensioni potrebbe rivelarsi meno utile del previsto in quanto studi dimostrerebbero come lavoratori giovani e meno giovani non siano in diretta competizione per gli stessi posti di lavoro. Il governo si dovrebbe concentrare su un forte programma di investimenti, nelle costruzioni, nelle infrastrutture digitali e nella ricerca.

Stime econometriche prodotte dagli stessi ricercatori suggeriscono che politiche fiscali espansive possono avere affettivi positivi sulla produzione nazionale. Nel dettaglio, uno shock esogeno della spesa pubblica pari all’1 percento del valore aggiunto, potrebbe avere un effetto positivo pari a circa l’1,8 percento di aumento di produzione nello stesso anno. In conclusione gli autori suggeriscono come riforme strutturali supportate da politiche espansive mirate al rilancio della domanda possano aiutare l’Italia ad ottenere la fiducia dei mercati finanziari. Proprio quei mercati finanziari che hanno ampiamente dimostrato di essere sensibili agli annunci fatti dal governo italiano, precisa l’analisi del DIW. 

Sono sufficienti le misure proposte? È sufficiente un aumento della spesa pubblica in Italia per stimolare l’economia e salvare l’Europa? Come possono essere incentivate i settori industriali ad alto potenziali di crescita? Il processo di integrazione europea a cui abbiamo assistito fino ad ora ha comportato l’emergere di profonde divergenze tra i Paesi dell’Unione. Celi et al. (2019) hanno messo ampiamente in evidenza come intorno alla Germania si sia creata una forte piattaforma produttiva, orientata all’export nei mercati globali. Qualità dei prodotti, elevate competenze tecnologiche ma anche moderazione salariale, frammentazione del mercato del lavoro interno, insieme all’estensione della catena del valore verso i nuovi membri dell’Unione, hanno reso l’export tedesco sempre più competitivo nei mercati internazionali. Nella periferia dell’Europa, in Italia ad esempio, si è assistito negli anni ad un lento processo di deindustrializzazione, dovuto ad un rapido processo di liberalizzazione e “de-politicizzazione” dell’industria alla quale si è sostituta la convinzione che le forze di mercato all’interno del giusto quadro istituzionale potessero promuovere un processo di convergenza dell’economie periferiche verso il modello industriale dell’Europa cosiddetta “core”.

Le forze di mercato lasciate da sole si sono invece dimostrate incapaci di promuovere un percorso di integrazione economica virtuoso creando terreno fertile per sentimenti antieuropeisti, estremismi e movimenti politici populisti. Come suggerito da Pianta et al. (2016) occorre una nuova generazione di politiche industriali che, evitando gli errori del passato (collusione del potere politico ed economico, burocrazia eccessiva, mancanza di responsabilità e di capacità imprenditoriali), riescano ad indicare la direzione per una nuova struttura industriale, dell’Italia e dell’Europa orientate alle nuove tecnologie delle telecomunicazioni, all’ambiente e alla salute. In Germania il governo ha già iniziato a discutere di politiche industriali del futuro. Per avviare un processo di ristrutturazione dell’industria italiana orientata alle nuove industrie ad alto potenziale di crescita occorre una rinnovata politica industriale all’interno di un nuovo quadro macroeconomico europeo.

Riferimenti:

 

Celi, Guarascio and Simonazzi (2019) Unravelling the Roots of the EMU Crisis. Structural Divides, Uneven Recoveries and Possible Ways Out. Intereconomics, Vol. 54, Issue 1, pp. 23–30

Lucchese, Nascia and Pianta. Industrial policy and technology in Italy. Economia e Politica Industriale – Journal of Industrial and Business Economics. Vol. 43, Issue 3, pp. 233–260

Qui il link alla presentazione del piano di politica industriale del ministro dell’economia Peter Altmaier https://www.bmwi.de/Redaktion/EN/Dossier/modern-industry-policy.html