La misura detta “reddito di cittadinanza” non è altro un sussidio temporaneo di disoccupazione con un certo guadagno per le imprese: in pratica un Jobs act 2. La filosofia è la stessa: come aiutare la flex-security.
Il 2018 è stato un anno orribile per il reddito di cittadinanza, ritirato in quasi tutti i Paesi che lo avevano sperimentato per via di costi insostenibili se non sono accompagnati da adeguate politiche redistributive. Eppure economisti e imprenditori nelle élite della tecnologia lo considerano una risposta adeguata alla disoccupazione tecnologica – le perdite di posti di lavoro causate dall’automazione.
L’idea è che tutti i cittadini ricevano una certa quantità di denaro dal governo per le spese di cibo, alloggio e abbigliamento – indipendentemente dal reddito o dalla condizione lavorativa come “reddito di base incondizionato”, ovvero modulato se reddito di cittadinanza. I sostenitori dicono che aiuterà a combattere la povertà dando alle persone la flessibilità di trovare lavoro e rafforzare la loro rete di sicurezza, o che offre un modo per supportare le persone che potrebbero essere negativamente influenzate dall’automazione. Per i detrattori favorisce l’ozio a spese di quanti lavorano.
La notizia per quanto allarmante non deve però preoccupare il Governo. Quello che loro definiscono “reddito di cittadinanza” è in realtà un “sussidio temporaneo di disoccupazione”.
Il sussidio di disoccupazione è stato introdotto per la prima volta in Danimarca nel 1899 come strumento per rendere più flessibile il mercato del lavoro – il neologismo è flex-security, che coniuga flessibilità e sicurezza – all’interno di quelle che vengono definite politiche attive del lavoro. In altre parole, visto che il mercato del lavoro funziona assai male – i tassi di disoccupazione nel dopoguerra nei paesi OECD hanno variato dal 2 al 39% – si è al solito data una risposta semplicistica ad un problema complesso: non c’è abbastanza flessibilità.
Ora, a parte che la flex-security ha costi elevati che solo una forte politica fiscale può supportare (la Danimarca ha una tassazione sul PIL di oltre il 50% – di flat-tax non si parla e c’è un tasso di evasione fiscale bassissimo), il problema non è che il mercato del lavoro è troppo rigido: è che non c’è abbastanza domanda aggregata. Nonostante i centri per l’impiego, i programmi di formazione ed i sussidi all’occupazione, l’ispirazione è la stessa del “Jobs Act” renziano: più flessibilità dovrebbe portare maggior competitività e in definitiva a più PIL ed occupati. Ma ciò che non era vero per il vecchio governo non diventa verità con il nuovo.
In questo senso, il sussidio temporaneo di disoccupazione è una misura neoliberista meno pelosa ma che continua a trascurare la domanda e la (re)distribuzione. Il sussidio temporaneo di disoccupazione non è quindi che un provvedimento di politica economica di stampo neoliberista. Mentre diversa sarebbe stato un reddito di cittadinanza coniugato a una più equa politica fiscale o il “lavoro di cittadinanza” di Minsky (lo Stato diventa “datore di lavoro in ultima istanza” – in settori di alto valore sociale: terzo settore, assistenza a categorie deboli, ecologia e biodiversità, cultura e ambiti non direttamente profittevoli – perseguendo la piena occupazione in modo anticiclico, di modo che sia la domanda aggregata che la produzione si mantengono ad un livello stabile).
Inoltre, ma questo avviene da ormai 30 anni, la rivoluzione tecnologica 4.0 ha prodotto 2 fenomeni mai visti prima e su cui il sussidio temporaneo di disoccupazione, come prima il Jobs Act, è silente anche se il futuro dei giovani si gioca su questo. Mi riferisco alla crescita senza lavoro – cioè il PIL cresce ma l’occupazione no, perché sono i robot a produrre – e ai working poor – le persone cioè che pur lavorando hanno un reddito così basso da restare poveri, così mal retribuiti da scivolare nella zona di povertà relativa: la classe media che va scomparendo e la distribuzione del reddito si polarizza sempre più con i ricchi proprietari dei robot sempre più ricchi ed i poveri, sostituiti o in concorrenza coi robot, via via più poveri.
Solo se gli aumenti di produttività verranno accompagnati da corrispondenti aumenti di domanda, il benessere economico sarà distribuito e ci liberemo dalla trappola di una domanda aggregata stagnante da cui non scapperemo con strumenti neoliberisti come sussidio temporaneo di disoccupazione o Jobs Act.