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Dieci anni di austerità per l’istruzione in Italia: quali conseguenze?

Abbiamo deciso di scegliere questo argomento perché riteniamo fondamentale analizzare l’impatto delle politiche di austerità sull’istruzione in Italia, all’interno dell’appuntamento della Controcernobbio, il cui tema centrale è l’Europa. Sappiamo come le politiche adottate abbiano aumentato notevolmente le disuguaglianze e per quanto riguarda l’istruzione, possiamo dire che esiste un filo conduttore su questo tema che collega i diversi paesi, sia in termini di scelte politiche dei rispettivi governi, sia nelle rivendicazioni dei movimenti degli studenti che vi si sono opposti a tali scelte.

Qualche mese fa è stato pubblicato l’annuale rapporto dell’OCSE “Education at a glance” che da un lato, evidenzia la necessità di investimenti profondi in istruzione e ricerca, dall’altro smentisce le posizioni sostenute da autorevoli editorialisti ed economisti che propagandano una retorica del merito e delle competizione nelle università.

L’obiettivo del nostro workshop è pertanto quello di smentire alcuni falsi miti riguardo all’istruzione pubblica e la sua scarsa utilità sociale, per far crollare la propaganda che insiste sulla privatizzazione di scuole e università.

Cosa intendiamo con “dieci anni di austerità per l’istruzione”?

Analizziamo il rapporto “Education at a glance”, alla luce di queste riflessioni:

  • l’Italia è l’unico paese che non ha aumentato la spesa pubblica in istruzione, mentre i paesi dell’Ocse hanno aumentato in media la spesa del 62%. A questo ci riferiamo quando parliamo di austerità per l’istruzione in Italia, che affonda le sue radici prima della crisi.

  • spesa pubblica in FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario delle università) ha subito un forte calo, soprattutto durante gli anni della legge 133 che gravò pesantemente sul finanziamento dell’università, che di fatto scatenò la forte protesta del movimento dell’Onda. Questo calo non è mai stato recuperato, ed infatti l’andamento della spesa in FFO continua ad essere decrescente.

  • l’andamento della copertura delle borse di studio subisce una forte riduzione nel 2010 quando, proprio durante il secondo movimento studentesco, ci fu un taglio dell’89,54% delle borse di studio, ripianato solo in parte nel corso degli anni, con un consistente aumento degli idonei non beneficiari (circa 57mila quest’anno)

  • la crisi è un’opportunità? Analizzando la variazione della spesa per istruzione è possibile riscontrare che in tutti paesi dal 2008-2010 una riduzione della spesa pubblica in istruzione, a causa della recessione, ma se guardiamo la situazione dei PIGS vediamo che in rapporto al Pil, Spagna e Portogallo in quegli anni hanno investito comunque di più dell’Italia.

Quali sono gli effetti di queste politiche?

Proviamo ad analizzare gli effetti di una spesa pubblica in istruzione tra le più basse (30 esimo posto su 33)

1) Innanzitutto registriamo un calo delle immatricolazioni, di cui si è discusso molto: negli ultimi 10 anni sono spariti quasi 60mila studenti, per lo più proveniente dai licei classici e professionali, che hanno abbandonato in numero massiccio l’università. È in crescita invece la tendenza degli iscritti ai licei classici e scientifici, che però si iscrivono in numero minore al liceo classico.

2) Un aumento dell’età media insegnanti , per esempio 50 anni per la scuola primaria, tra le più alte in Europa.

3) Un aumento della dispersione scolastica e un peggioramento delle condizioni degli edifici scolastici e dei servizi.

Chi ci stiamo perdendo?

Se analizziamo le conseguenze di dieci anni di austerità per l’istruzione non possiamo non soffermarci sulla condizione della scuola primaria e secondaria. Se guardiamo al livello di sicurezza delle scuole, il 50% di esse sono senza certificazioni di agibilità e ad oggi mancano finanziamenti in tal senso. Investire nella messa a norma delle scuole e nella valorizzazione dei servizi creerebbe anche nuove occupazioni. Avere scuole fatiscenti e poco attrezzate incentiva anche la dispersione scolastica. La dispersione scolastica è dunque espressione del totale lassismo e incapacità dello Stato. Manca un progetto sull’edilizia scolastica, si è stimato che l’Italia avrebbe bisogno di 13 miliardi per mettere in sicurezza tutte le scuole, ma ad oggi siamo ben lontani da tale cifra, se pensiamo che il Decreto del Fare ha stanziato appena 450 milioni.

È necessario fare una distinzione tra dispersione scolastica e abbandono. Il tasso di abbandono è del 17.6% contro un media europea del 12.8%. Con Europa 2020 l’Europa si è impegnata a ridurre il tasso di dispersione scolastica sotto il 10%, mentre nei paesi del Nord Europa si è investito in forme di reddito per i soggetti in formazione, in Italia siamo ancora ben lontani dal garantire solo un sistema adeguato di diritto allo studio per gli studenti delle scuole superiori.

Tale mancanza di politiche di contrasto dell’abbandono scolastico ha causato in Italia un fenomeno di dispersione di massa. In particolare al sud i tassi di abbandono scolastico arrivano al 25% e al 21% in Sicilia e in Puglia (nonostante il forte impegno in Puglia, le percentuali rimangono alte). Al nord ci si allontana dalla scuola ma spesso a causa di disponibilità maggiori di occupazione a basso costo per gli studenti.

È importante sottolineare come i soggetti che abbandonano siano perlopiù quelli che si sono iscritti a istituti tecnici e professionali, dove è evidente una crescente dequalificazione

Inoltre è interessante notare come le scuole private presentino un maggiore tasso di dispersione scolastica, contrariamente all’idea della grande capacità formativa delle scuole private.

Come far fronte alla dispersione scolastica? Sinteticamente alcune delle proposte principali:

  • Ridurre il tasso di abbandono scolastico

  • Aumento investimento sul diritto allo studio, attraverso una legge nazionale sul diritto allo studio

  • Reddito per i soggetti in formazione che svincoli dalle condizioni di partenza degli studenti e che permetta agli studenti di istruirsi con maggiore stabilità economica ed esistenziale

  • Abbattere il ritardo digitale e agire sulle modalità didattiche ferme agli anni cinquanta, che spesso creano delle forti disparità tra gli studenti fin dall’inizio

  • Attivare dei corsi di formazione e di motivazione scolastica per gli studenti che si sono allontanati dalla scuola.

  • Cambiare il modello di valutazione opposto agli invalsi, per una valutazione più vicina agli studenti, capace di creare un percorso per gli studenti, attraverso degli incontri cadenzati con gli insegnanti per creare una relazione con lo studenti

  • L’obbligo scolastico deve salire a 18 anni e bisogna cancellare l’obbligo formativo, che permette di assolvere l’obbligo formativo attraverso dei contratti di apprendistato, che si rivelano in autentiche forme di sfruttamento, non solo per il livello di retribuzione ma anche per gli orari di lavoro e i diritti.

Qualche mito da sfatare

Nel dibattito italiano, ci sono diverse voci che portano avanti la retorica secondo cui l’università e la scuola italiane non sono produttive ed efficienti , dunque non meritano finanziamenti. Per questo vogliamo utilizzare questo workshop per sfatare i miti più comuni sull’università italiana.

1) “Il numero dei laureati è troppo alto in Italia.”Assolutamente no, il numero dei giovani laureati è pari al 20% della popolazione (l’obiettivo europeo è pari al 40%) , inoltre nel nostro paese esiste il problema della “bolla formativa” : i laureati sono troppi per il nostro mercato del lavoro, ma inferiori alla media europea.Una grande questione in Italia non è rappresentata solo dai disoccupati, ma anche dai cosìdetti Neet, coloro che nemmeno cercano il lavoro e non studiano, gli inattivi con cui bisognerebbe correggere i dati sulla disoccupazione.È importante sottolineare come il 30% imprenditori in Italia abbia appena la licenza elementare, eppure si registra che solo i manager più formati assumono maggiormente giovani laureati. Nonostante ciò laurearsi conviene, in quanto sul lungo periodo i laureati guadagnano più dei non laureati oltre alle ricadute sociali positive sulle condizioni generali del paese.
  • Sulla spesa per laureati, in Italia c’è molta confusione: in UE si spendono in media diecimila euro per laureato, in Italia era molto più bassa già prima della crisi. Se guardiamo a questo dato inoltre, dobbiamo riconoscere che esso non cattura la spesa effettiva per studente, essendo calcolato dal rapporto tra spesa degli atenei e il numero di studenti. Eppure le spese degli atenei non sono tutte rivolte agli studenti (il caso dei policlinici, il pagamento dei dottorati, masters etc.): non tutti i costi fissi dell’ateneo si traducono in finanziamenti all’istruzione. Facendo un calcolo sulla base delle voci di bilancio, un ateneo come la Federico II di Napoli spende 1.340 euro per studente a fronte di 700euro di tasse, a Pisa si spendono 2.900 euro per studente a fronte di 900 di tasse.

  • Attraverso dei calcoli stimati dall’Ocse, per un euro investito in istruzione c’è un ritorno economico del 10%, ciò assicura che gli investimenti in istruzione creino un grande ritorno per l’economia (senza considerare le esternalità positive a livello di benessere sociale)

2) “I fuoricorso sono un costo sociale.” È vero che risulta aumentato il numero dei fuoricorso, una percentuale di essi, però è stata sfavorita dalle varie riforme degli ordinamenti degli ultimi anni. Questo dato non può essere però considerato come antropologico, ma va analizzato in modo più approfondito. È importante inoltre sottolineare come i fuoricorso siano quegli studenti che pagano le tasse e tutti i costi relativi all’università, pur non usufruendo di tutti i servizi come gli altri. In ogni caso, se si analizzano i dati l’Italia è ancora sotto la media europea! Un altro dato è quello sull’età media dei laureati che in Italia non supera la media europea. 3) “Le tasse universitarie in Italia sono basse”. È possibile analizzare come l’università italiana sia la terza più cara d’Europa e dunque assolutamente non gratuita come molti dicono. 4) “Il numero chiuso aumenta la meritocrazia.” Il numero chiuso va analizzato tenendo conto delle enormi disparità che si creano tra gli studenti a secondo della loro provenienza economica. Inoltre, se guardiamo all’efficacia di valutazione dei test, consideriamo che essi sono pochi efficaci:In media chi va bene al test, va peggio all’università.

L’Europa della conoscenza

Il concetto “Società della conoscenza” va distinto da quello di “Economia basata sulla conoscenza”. La seconda espressione riflette l’idea di aumentare la competitività di un paese attraverso la conoscenza. Di certo però l’obiettivo di chi si iscrive all’università non è quello di guadagnare di più del proprio vicino di banco, ma ci sono altre ragioni che si inseriscono nella scelta di iscriversi all’università, come ad esempio quella di cambiare la società stessa e contribuire ad un modello di sviluppo diverso.

Ci sono due possibili politiche, inclusiva e selettiva. Entrambi producono un alto numero di laureati, ma una politica inclusiva crea una società eguale, mentre una politica selettiva acuisce le disuguaglianze.

Un quadro sulle politiche di austerità rispetto agli investimenti nel settore culturale

Un paio di anni fa Il Sole 24 ore aveva lanciato un manifesto per la cultura, che di fatto aveva una natura fortemente “imprenditoriale” applicata alla cultura. Ricordiamo inoltre che il Parlamento europeo ha più volte indicato di destinare risorse alla cultura, che in Italia sono invece state tagliate. Molti lavoratori del settore della cultura hanno deciso di rispondere a questo sottolineando invece il ruolo che ha la cultura nel migliorare la qualità della democrazia ridurre le disuguaglianze.

Nel discutere di questi temi, è dunque necessario non separare i temi degli investimenti in istruzione da quello nel settore della cultura, ma cercare di creare un piano complessivo che tenga conto di cultura, istruzione, innovazione e così via. Per fortuna si stanno creando degli anticorpi, delle realtà che affrontano tali problemi a livelli europeo, reti che si occupano di arte, cultura e che parlano non più di una crisi, ma di un cambio di paradigma in cui siamo oggi.

In Italia, le politiche culturali sono state tagliate notevolmente in tutte le regioni e nei piccoli comuni teatri e luoghi della cultura sono spesso tra le prime voci di spesa da ridurre.

Una delle battaglie dovrebbe essere quella di valorizzare i luoghi della cultura, tema su cui molte realtà cittadine autonome si sono mosse, cioè provare a rendere i luoghi della cultura attraversabili, accessibili e utili alla collettività.

Sono stati poi individuati i livelli essenziali delle prestazioni che devono essere erogati ai cittadini dagli enti locali, in casi di mancato raggiungimento di questi livello, lo Stato dovrebbe erogare dei finanziamenti suppletivi. Il problema è che in questi indici, praticamente non ci sono voci riguardanti la cultura.

Infine, ci sono degli aspetti che sembrano non essere così importanti su cui invece bisognerebbe agire come la riforma della Rai e la Siae, t mi che dovrebbero riguardare tutti.

Relatori del workshop:

Elena Monticelli – Rete della Conoscenza – Area tematica Saperi e Cultura Sbilanciamoci!Giacomo Gabbuti – Link Cooordinamento Universitario – Rete della ConoscenzaDanilo Lampis – Unione degli Studenti – Rete della Conoscenza

Sono intervenuti con un contributo tematico alla discussione:

Armanda Cetrulo – Rete della ConoscenzaCarlo Testini – Arci – Area tematica Saperi e Cultura Sbilanciamoci!Christan Raimo – Teatro Valle Occupato

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