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Banche da paura

I problemi posti dal sistema bancario dopo la crisi del 2008, le recenti vicende del sistema finanziario italiano e l’avvio tormentato dell’unione bancaria europea. Un’inchiesta in 3 puntate

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I problemi posti dal sistema bancario dopo la crisi del 2008, le recenti vicende del sistema finanziario italiano, l’evoluzione tecnologica che rischia di sconvolgere gli equilibri del settore, l’avvio tormentato dell’unione bancaria europea, sono alcuni dei fattori che ci spingono a cercare di fare il punto su di un’attività che è sotto i riflettori dell’opinione pubblica.

Gli articoli che seguono cercano di analizzare in particolare la situazione e le prospettive del sistema bancario occidentale e le ipotesi di una sua radicale riforma.

La morte delle banche, 1?

Già molte decine di anni fa un filone della teoria finanziaria e monetaria (si pensi in particolare ai lavori di John Grey Gurley e di Edward Stone Shaw negli anni sessanta), considerava l’intermediazione finanziaria delle banche come un fenomeno transitorio, caratteristico dei paesi finanziariamente arretrati.

La loro scomparsa progressiva sarebbe stata da collegare allo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, ciò che avrebbe permesso una valutazione diretta, da parte degli investitori, delle varie realtà del mercato e quindi lo sviluppo di un ricorso diretto da parte dei prenditori di capitali agli investitori stessi, saltando gli intermediari.

La realtà non ha confortato, almeno sino a tempi recenti, se non in misura molto ridotta, queste ipotesi. Si sono manifestati, nei decenni successivi alla pubblicazione delle analisi dei due autori, importanti fenomeni di disintermediazione, sia dal lato dell’attivo che da quello del passivo, legati anche allo sviluppo delle nuove tecnologie, ma le banche hanno reagito in molti modi, inserendosi nel settore degli investitori istituzionali, puntando sull’innovazione di prodotto e di processo, sviluppando una concorrenza accanita, basandosi anche sulla forza data loro dalla collusione con il potere politico.

Comunque, le ipotesi di Gurley e Shaw acquisivano una certa plausibilità se si guardava in particolare alla realtà Usa; da molto tempo ormai le imprese di quel paese fanno ricorso, per le loro necessità di finanziamento, per l’75% al mercato e solo per il 25% alle banche, anche se poi, per la verità, per montare le operazioni sul mercato, si rivolgono all’aiuto delle banche di investimento. In Europa il rapporto è inverso, con il 75% delle risorse procurate dalle banche e il 25% dal mercato.

Può apparire, per altro verso, paradossale parlare di morte delle banche quando abbiamo di recente assistito ad una crisi che ha fatto emergere, tra l’altro, l’esorbitante potere del sistema finanziario sull’economia.

La morte delle banche, 2?

Ma la crisi ha fatto anche venire alla luce il fatto che il sistema bancario non solo ha accresciuto la sua forza politica, ma che esso serve sempre meno ai bisogni del sistema economico, girando in sostanza soprattutto su se stesso e dedicandosi ai giochi della speculazione, da cui è stato poi salvato di recente con i soldi dei cittadini.

Così, da una parte esso ha destabilizzato l’economia e dall’altra ha mostrato, con lo scoppio di moltissimi scandali che di frequente coinvolgevano insieme molti istituti, di essere persino diventato, per molti versi, un’associazione a delinquere su larga scala, che opera con la convivenza dei governi e dei controllori.

Ancora in queste settimane apprendiamo che negli Stati Uniti la Goldman Sachs dovrà versare una penalità di 5,1 miliardi di dollari, dopo che altri istituti hanno dovuto pagare altri 37 miliardi, in relazione a delle operazioni fraudolente sul mercato dei titoli legati ai mutui e nell’ambito di un insieme di inchieste che hanno portato in totale nel tempo a sanzioni per più di 180 miliardi di dollari.

In tale clima, negli ultimi anni alcuni studiosi, sulla base da una parte del fatto che l’evoluzione tecnologica ha fatto dei passi da gigante dai tempi di Gurley e Shaw, dall’altra in relazione alle vicende della crisi, puntano il dito sulla necessità non di una stabilizzazione, ma di una rifondazione totale del settore. Da alcune parti si rilancia anche l’idea della fine delle banche come le conosciamo oggi, questa volta come obiettivo desiderabile ed urgente della politica economica dei vari governi, non come evoluzione spontanea indotta dalle tecnologie.

Così un testo recente, scritto insieme da un accademico e da un manager del settore (J. McMillan, 2014), mostra come la rivoluzione tecnologica abbia paradossalmente aiutato il sistema a crescere a dismisura su se stesso, a fare operazioni sempre più complesse, a prendersi dei rischi irragionevoli e a schivare i regolatori e le agenzie di rating. Il volume prevede anche, come vedremo più avanti, la rifondazione totale del sistema.

La situazione attuale

Premessa

In ogni caso oggi il settore, che registra al suo interno una grande diversificazione di attività, di dimensioni, di presenza geografica, di risultati di mercato ed economici, si trova di fronte a grandi problemi. Negli ultimi mesi i media hanno registrato avvisi di riduzione dei profitti, licenziamenti massicci, frettolosi aumenti di capitale, prezzi delle azioni in ritirata; tutto questo mostra che le cose non vanno molto lisce (Jenkins, Arnold, 2015). Le difficoltà sono peraltro più accentuate in Europa che negli Stati Uniti.

Il business deve affrontare, oltre alle sfide delle nuove tecnologie e dei nuovi concorrenti da esse indotte, l’ingresso sul mercato delle nuove potenze asiatiche ed inoltre le nuove regolamentazioni che, pur essendo insufficienti, mordono sui risultati, mentre degli azionisti impazienti premono invece per profitti più elevati.

La redditività

Nel settore bancario la redditività si misura prevalentemente con l’indice Roe (Return on equity), rapporto tra i profitti generati nell’anno e il livello dei capitali propri. Ora, tale indice raggiungeva, nel periodo pre-crisi, un valore anormalmente elevato, che arrivava sino al 25-30% (Jenkins, Arnold, 2015), ciò che indicava che le banche erano diventate delle bische e che esse prendevano rischi esagerati. Tra l’altro, esse facevano molti debiti e gestivano le cose in un ottica di breve termine, mentre i suoi manager avevano una remunerazione strettamente legata al Roe (Admati, Hellwig, 2013). Ma oggi la JPMorgan Chase, la banca più redditiva di Wall Street, guadagna appena il 12%. La brillante Goldman Sachs solo il 7% (Jenkins, Arnold, 2015).

Le banche hanno da allora, in effetti, aumentato il capitale e migliorato così il rapporto tra mezzi propri e debiti, in ciò rispondendo alle più stringenti esigenze fissate dai regolatori; parallelamente, esse hanno così diminuito il Roe. La teoria finanziaria afferma che ciò è corretto, perché riducendo il rapporto debiti/mezzi propri il titolo diventa meno rischioso e si dovrebbe quindi ridurre il rendimento che gli investitori domandano. Ma gli stessi investitori, che continuano a pretendere dalle banche un Roe di almeno il 15%, sembrano non capire la regola. Se ne può concludere che il mercato non è razionale (Davies, 2016).

Lo sbarco delle imprese internet

Oggi le banche tradizionali guardano con preoccupazione alla concorrenza dei giganti della rete; questi ultimi si sono fatti strada nel settore dei pagamenti come in quello delle monete virtuali. Ma si paventa il loro l’ingresso in forze in comparti più importanti, dall’offerta di prestiti, alla raccolta di depositi, ai servizi di cambio, all’asset management, sino alla predisposizione di un servizio completo. Le banche temono che i nuovi entranti si concentrino poi sulle attività più ricche e lascino alle banche tradizionali le loro alte basi di costo e i prodotti meno redditivi.

In effetti i nuovi soggetti possono guadagnare di più pur offrendo tassi di interesse più bassi e servizi meno costosi, dal momento che essi hanno dei costi più limitati.

La banche devono trasformarsi profondamente per competere con le start-up digitali ed esse, in effetti, cercano di reagire tra l’altro investendo nelle nuove tecnologie. Ma la digitalizzazione appare complessa, comportando alla fine una trasformazione profonda nel modo di essere e di operare delle banche.

Ancora oggi la parte di mercato dei nuovi entranti è bassa; ma il segmento cresce a ritmi molto sostenuti. Da qui a cinque anni, come indica uno studio di KPMG, ad esempio il mobile banking dovrebbe raddoppiare di dimensioni e toccare circa 1,8 miliardi di utilizzatori, un quarto della popolazione mondiale.

La concorrenza cinese ed asiatica

Una grossa fetta delle risorse finanziarie mondiali è generata in Asia, sia attraverso i surplus commerciali con l’estero che attraverso l’elevato risparmio interno. Ma tali capitali sono riciclati ancora oggi, per una parte consistente, attraverso il sistema bancario e finanziario occidentale.

Oggi le prime quattro banche cinesi sono anche le prime quattro a livello mondiale come dimensioni. Ma esse sono assorbite soprattutto dal mercato interno, che appare ancora relativamente sottosviluppato, anche se in movimento; esse stanno solo ora muovendo i primi passi all’estero.

Ma indubbiamente la situazione potrebbe cambiare presto. Al momento i cinesi sono maggiormente occupati a costruire un’infrastruttura finanziaria per controllare meglio i mercati finanziari delle materie prime, nonché a governare un indebitamento eccessivo e una presa di rischio troppo elevata da parte delle banche. Ma, in ogni caso, anche per quanto riguarda il settore finanziario, il centro di gravità mondiale sembra destinato a trasferirsi entro una decina di anni nel continente asiatico.

1.continua

Testi citati nell’articolo

-Admati A., Hellwig M., The bankers’ new clothes, Princeton University Press, Princeton, 2013

-Davies D., Banks should not fixate on double-digit returns, www.ft.com, 13 gennaio 2016

-Jenkins P., Arnold M., Beyond banking: under attack on all sides, www.ft.com, 10 novembre 2015

–McMillan J., The end of banking : money, credit and the digital revolution, Londra, 2014