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Austerity, economisti alla rissa politica

Mentre il dibattito politico sull’austerity è assente, in campo accademico lo scontro è al calor bianco. Così l’economia è diventata ideologia e lo scontro teorico è divenuta bagarre politica

Quello cui ci troviamo davanti in questi anni è un fenomeno alquanto bizzarro. Il dibattito politico sull’austerity è stato largamente assente in praticamente tutti i paesi europei. Socialisti e conservatori, chi con entusiasmo, chi con qualche remora, hanno accettato tagli e tasse senza nemmeno discutere la validità di tali ricette economiche. Diversa invece la situazione in campo accademico, dove lo scontro tra neo-lib (e neo-con) e keynesiani è ormai al calor bianco. Non più solo uno scontro di idee, ma uno scontro personale e soprattutto, appunto, politico. In discussione ormai non sono solo certe politiche, ma sistemi di pensiero, onestà intellettuale e ruolo degli intellettuali nella società.

Con buone ragioni, a mio parere. Per oltre trent’anni l’economia mainstream è stata presentata come una scienza esatta, super partes. Magnificava il mercato e demonizzava l’intervento pubblico quando non la politica tout court, perché così dicevano i numeri. Che questi numeri non fossero proprio una rappresentazione fedele della realtà contava poco. L’economia è diventata una forza decisiva per impostare il dibattito politico, formare la pubblica opinione, incatenare le scelte degli Stati – basti pensare, ben prima della presente austerity, ai parametri di Maastricht. Una scienza strumentale ad un certo tipo di sistema di potere e che dunque si è sviluppata e strutturata su criteri certo non solo legati al merito accademico: i leoni alle porte delle facoltà di economia imponevano l’accettazione di una metodologia e di un sistema di pensiero quasi totalizzante. Non solo. Come ben spiegato da Haring e Douglas [i], gli incentivi alla ricerca, soprattutto nel mondo anglosassone, erano e sono tali da portare ad un tipo di produzione scientifica politicamente connotato. Ad esempio, come racconta Branko Milanovic [ii], trovare i fondi per fare ricerca sulla diseguaglianza è una impresa assai complicata negli Stati Uniti. Temi, come dire, troppo sensibili.

La cosa non è certo migliorata con la crisi, tutt’altro. Dopo un iniziale periodo di politiche keynesiane, si è cambiato velocemente rotta. In concomitanza con la crisi greca sono cominciati a circolare i primi importanti contributi accademici in favore dell’austerity. Prima Alesina e Ardagna [iii] che sostenevano come una contrazione della spesa pubblica potesse influire positivamente sulla crescita del Pil, poi Reinhart e Rogoff [iv] che stabilivano una relazione causale tra debito pubblico troppo alto e bassa crescita. Senonché pian piano è venuta a galla qualche verità un po’ scomoda per i fautori dell’austerity. In primo luogo l’impatto delle politiche restrittive era stato calcolato usando un moltiplicatore sbagliato – e dunque tutte le previsioni sull’andamento del Pil erano state sovrastimate. Ma anche l’impianto teorico fornito dai vari paper che rigettavano il ruolo della spesa pubblica e tutto il contributo keynesiano alla macroeconomia si rivelava clamorosamente fallato. A parte il famoso errore di Excel nell’articolo di Reinhart e Rogoff, i problemi di fondo sono ben altri: dati inseriti e/o esclusi ad arte, pesi dei dati quantomeno dubbiosi, relazioni di causalità invertite. In entrambi i casi si tratta di una evidenza empirica scadente spacciata come incontrovertibile, ed usata poi politicamente per imporre un certo tipo di politiche pubbliche. La maggior parte delle critiche si sono sviluppate su profili squisitamente tecnici e scientifici, ma altre si sono spinte ben oltre. In particolare Krugman ha attaccato a testa bassa, fondamentalmente accusando gli economisti pro-austerity di disonestà intellettuale. Ne è nata una rissa gigantesca in cui si è particolarmente distinto Niall Ferguson, storico di Harvard e da sempre un super falco che ha cominciato una sorta di querelle personale con Krugman stesso [v], accusato infine di essere eccessivamente maleducato [vi].

Qualcosa di abbastanza insolito nel mondo dell’università. Ma che in fondo non ci dovrebbe sorprendere. L’economia è diventata ideologia e dunque lo scontro teorico è divenuta bagarre politica. Ma non tutte le parti sono uguali, in questa mischia. Forse Krugman non ha usato il fioretto in questa disputa, ma il problema vero è che da parte neoliberale si è ricorso in maniera costante ad una presentazione dei dati davvero poco edificante, si potrebbe dire mistificante – e che dunque non ha molto di accademico. Dopo gli errori, se così possiamo chiamarli, di Alesina e Rogoff, si sono aggiunte marchiane imprecisioni dello stesso Ferguson [vii], incapace nei suoi articoli sul Wall Street Journal di distinguere tra PIL ed entrate fiscali. E Rogoff [viii] è tornato alla carica dichiarando un successo la politica di austerity britannica – con l’economia ora tornata ad una timida crescita dopo tre anni di recessione – in base ad un bizzarro sillogismo secondo cui avendo il Regno Unito fatto default negli anni 30 (ed avendo richiesto l’aiuto dell’IMF per due volte nel secondo dopo guerra), i mercati non riponevano abbastanza fiducia nel debito inglese. L’austerity avrebbe dunque ristabilito la fiducia dei mercati ed evitato una deriva greca. A questo naturalmente, si sono aggiunti gli attacchi più puramente politici dei vari Schauble e Rehn [ix] che rivendicano la giustezze delle loro politiche, dimenticando di parlare di disoccupazione, povertà, ospedali e scuole chiuse, come se la fine della recessione – che è cosa ben diversa dal ripristino della crescita – fosse effetto dell’austerity e non dei fattori produttivi di medio periodo. Trovando per altro come unico contraltare giornalisti economici [x] magari appartenenti a testate conservatrici, ma liberi abbastanza da ristabilire la verità dei fatti.

Quello cui ci troviamo di fronte è, in realtà, un cortocircuito generale. Che la mistificazione della realtà venga fatta da politici che cercano di difendere il loro operato è in qualche maniera comprensibile, mentre molto meno lo è che non ci siano forze politiche di rilievo che puntino l’indice contro i disastri dell’austerity. Allo stesso tempo, che l’economia venga usata come clava ideologica dovrebbe far riflettere sulla supposta scientificità della disciplina e sul ruolo politico degli intellettuali, sempre più organici al sistema. E non certo super partes.

[i] N. Haring, N. Douglas, Economists and the Powerful, Anthem Press, 2012.

[ii] B. Milanovic, Haves and Haves Not, Basic Books, 2012.

[iii] A. Alesina, and S. Ardagna (2009) ‘Large Changes in Fiscal Policy: Taxes Versus Spending’, NBER Working Paper No. 15438.

[iv] C. Rehinart and K. Rogoff (2010), ‘Growth in a Time of Debt’ NBER Working Paper No. 15639.

[v] Ad esempio la serie di tre articoli di Ferguson sull’Huffington Post:

http://www.huffingtonpost.com/niall-ferguson/paul-krugman-euro_b_4060733.html http://www.huffingtonpost.com/niall-ferguson/paul-krugman-housing-crisis_b_4067580.html http://www.huffingtonpost.com/niall-ferguson/krugtron-the-invincible-p_b_4073956.html [vi]http://www.project-syndicate.org/commentary/on-the-perils-of-paul-krugman-by-niall-ferguson [vii]http://delong.typepad.com/sdj/2013/10/whiskey-tango-foxtrot-wall-street-journal-bang-query-bang-query-is-this-some-strange-berkeley-acid-trip-i-am-on-weblogging.html [viii]http://www.ft.com/cms/s/0/b933e5e8-29ef-11e3-9bc6-00144feab7de.html’siteedition=uk#axzz2htY5hFH0 [ix] Vedi anche il mio pezzo su Liberazione, “Schauble, Rehn, e i successi dell’austerity”, http://resistenzainternazionale.wordpress.com/2013/09/19/schauble-rehn-e-i-successi-dellausterity/ [x] Ad esempio Ambrose Evans-Pritchard sul Daily Telegraph, http://blogs.telegraph.co.uk/finance/ambroseevans-pritchard/100025568/ e Martin Wolf sul Financial Times http://dralfoldman.com/2013/09/27/osborne-has-now-been-proved-wrong-on-austerity-martin-wolf-ft-com/