Con il “Conte-bis” la prima buona notizia è l’addio alla flat tax. Ma sono molti i nodi irrisolti di politica economica partendo dal necessario superamento dell’approccio neoliberista: redistribuzione del reddito, investimenti, riconversione produttiva, occupazione e Mezzogiorno.
Comunque la si pensi sul governo appena nato, l’addio alla flat tax è una bellissima notizia. Redistribuire reddito in favore di chi è già ricco, storicamente non ha mai funzionato e non solo farebbe “arrabbiare” Robin Hood, ma anche è jettatorio visto che ogni volta che la distribuzione è diventata troppo iniqua – fu così nel 1873, nel 1929 e ultimamente nel 2008 – l’economia è entrata in una Grande Depressione.
Ovviamente non si tratta di sfiga, ma credere che più profitti e rendite si traducano in maggiori investimenti significa sostenere che si può decidere quanto guadagnare – domani – e non quanto spendere – oggi. A parte gli economisti mainstream, nessuno ci può veramente credere.
Dare più reddito ai ricchi non implica maggiori investimenti perché la domanda viene soprattutto dai consumi delle classi media e bassa. Se queste vivessero d’aria, i salari e gli stipendi potrebbero azzerarsi, le merci diventare molto competitive salvo poi accumularsi invendute nei magazzini perché nessuno può comprarle. Poiché però si investe solo se ci si aspetta di vendere, siamo sicuri che impoverire l’80% della popolazione, o abbassare di frazioni di punto i tassi di interesse, sia la strada giusta per farli aumentare?
Scongiurato l’incubo della tassa piatta, cosa possiamo attenderci sul mercato del lavoro, che succederà al “Jobs Act” di Renzi e al cosiddetto “reddito di cittadinanza” di Di Maio? Nulla, in quanto ispirati – consapevolmente o meno – dalla medesima ideologia liberista: più ci sarà lavoro a buon mercato maggiore sarà l’occupazione, come dimostrano ad esempio i casi di Germania o Giappone, da un lato, e Botswana o Ruanda, dall’altro. Se la disoccupazione diminuisce perché aumentano i working poor o gli scoraggiati o i part time involontari, il benessere non aumenta. Questa è la storia.
Il Governo ha certo molto da fare, ma intanto deve chiarirsi le idee su quale politica economica adottare. Poiché il malessere dell’economia italiana persiste da almeno un quarto di secolo, solo un Dulcamara di turno può proporre elisir miracolosi fatti di riforme neoliberiste e sovranità monetarie – nonostante l’esempio dell’Argentina che può stampare tutta la moneta che vuole.
Soluzioni ci sono, ma occorrono scelte coraggiose e spesso di lungo periodo, come una politica industriale “verde” e meta-sostenibile (alla Roberto Danovaro), che guardi non solo alla sostenibilità, ma recuperi almeno parte di quel capitale naturale che l’“Antropocene” ha distrutto.
Questa riconversione produttiva – quasi un “New Deal” verde – deve basarsi sulla rivoluzione 4.0 e quindi sulla ricerca. Attività costose che non possono essere lascate al buon cuore dei singoli operatori privati che non hanno convenienza economica a farlo, ma potrebbero essere guidate dai consumatori e dagli Stati e finanziate da una riforma della politica fiscale europea, dalla Banca Europea degli Investimenti e dall’abbandono dei vincoli di bilancio liberisti.
Guardando sempre al futuro non immediato, l’Esecutivo non potrà non interrogarsi su quale welfare – di ciò che è rimasto – avremo. Sanità, pensioni e diritto allo studio non possono più essere affrontati a colpi di slogan. Ragioni demografiche e vincoli di bilancio vanno ben valutati se non si vuole far ricadere tutti gli oneri sulle generazioni future.
Il dualismo territoriale merita poi un discorso a parte. Se non si mira alla secessione, al Mezzogiorno occorre prestare massima attenzione. Si sa dove intervenire – legalità, scuola, capacità di creare nuovi prodotti, turismo – ma i tempi sono, in questo caso, assai stretti. Nonostante la propaganda, la vera emergenza migratoria è quella che colpisce i giovani del Sud. Qui bisogna davvero inventarsi più soluzioni.
Nel breve periodo credo si debba prendere sul serio l’ipotesi di introdurre un’imposta annuale sui patrimoni molto alti, sull’esempio dei paesi del Nord Europa, per ridurre il Debito Pubblico e gli oneri finanziari sullo stesso che redistribuiscono redditi ai ricchi e sottraggono risorse al welfare e agli investimenti pubblici.
Occorre ora rompere il senso unico della politica economica neoliberista sui vincoli di bilancio. La lezione – vedi i lavori di Mariana Mazzuccato – è che la spesa, privata o statale che sia, può produrre esiti del tutto differenti – se ci si indebita per far studiare i figli o per abbonarsi ai siti porno, le conseguenze potrebbero essere differenti – e che le maggiori innovazioni richiedono un impegno di spesa che solo lo Stato può sostenere.
Iniziare una politica di redistribuzione del reddito porterà benefici a tutti. Un livello eccessivo di disuguaglianza fa sì che l’élite dei più ricchi controlli i media e non esista più una politica economica diversa da quella dettata dagli interessi dell’élite. Il governo è parzialmente responsabile della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e ha ridotto il suo ruolo nel correggere queste disparità attraverso politiche fiscali progressive e di spesa pubblica.
Quando i ricchi diventano più ricchi, hanno più da perdere riguardo ai tentativi di limitare le loro attività di ricerca di rendita e incoraggiare una ridistribuzione del reddito al fine di creare un’economia più equa. Inoltre, hanno più risorse per resistere a questi tentativi. Se continuassimo a pensare che semplicemente facendo crescere il PIL tutti ne trarrebbero automaticamente vantaggio, avremmo torto.
Anche se l’economia producesse più beni e servizi, se, anno dopo anno, la maggior parte dei cittadini di oggi avesse un reddito sempre più basso o più alto, ma a spese delle generazioni future, la nostra economia non funzionerebbe bene. Il Governo se ne ricordi, valorizzando la da poco istituita “Benessere Italia”.