Un gruppo di personalità della società civile e delle associazioni, tra cui molti della campagna Sbilanciamoci!, fa appello a tutti a firmare, anche online, per i 4 referendum contro la precarietà del lavoro lanciati dalla Cgil. Ecco cosa si intende modificare.
Viene definito sulla stampa “referendum della Cgil sul Jobs Act” ma in verità dei quattro quesiti referendari proposti dal sindacato guidato da Maurizio Landini solo due si riferiscono alla riforma del mercato del lavoro voluta da Matteo Renzi e varata dal suo governo.
La raccolta firme sui quesiti proposti dal sindacato è partita lo scorso 25 aprile e, oltre ai banchetti organizzati nelle piazze delle città e alle manifestazioni (come la manifestazione nazionale a Napoli del 25 maggio contro l’autonomia differenziata e il premierato), prosegue anche online sul sito di Collettiva (per firmare clicca qui, per la firma digitale serve avere lo Spid o il Cie della carta d’identità elettronica, qui le istruzioni su come fare). A partire dai primi giorni di maggio è stato lanciato un appello a partecipare alla raccolta di firme da un gruppo di costituzionalisti e di personalità del mondo delle associazioni, tra cui anche il portavoce di Sbilanciamoci Giulio Marcon e molti presidenti e portavoce di associazioni che fanno parte della campagna Sbilanciamoci! anche se a titolo personale.
L’obiettivo per tutti è raggiungere, per ciascuno dei quattro quesiti, la soglia minima di 500mila firme necessarie per indire il referendum nel 2025. Vediamo in dettaglio cosa si vuole abrogare.
Il primo quesito è stato definito dalla Cgil “per un lavoro tutelato”, è il più impattante con la normativa chiamata Jobs Act, che si articolava in una legge delega e in otto decreti attuativi. Il primo quesito vuole scalzare proprio il cuore del Jobs Act – il contratto a tutele crescenti – che stabiliva un nuovo standard di lavoro considerato stabile, un contratto ufficialmente a tempo indeterminato ma senza possibilità di reintegra del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa e in pratica una via di mezzo tra il contratto a tempo indeterminato vecchia maniera e il contratto a tempo determinato, una enorme porta verso la precarizzazione del lavoro dei più giovani. Il contratto a tutele crescenti viene applicato infatti solo ai lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, cioè dopo il Jobs Act di dieci anni fa, che quindi diventano molto più facilmente licenziabili. In questo modo, negli intenti dichiarati del legislatore, le aziende, non spaventate dalla difficoltà di licenziare, sarebbero dovute essere inclini ad assumere più giovani. C’è da rimarcare che a segnalare la profonda ingiustizia e la sostanziale inapplicabilità di questa norma ci sono state due delle tre sentenze recenti della Corte Costituzionale, intervenuta per via incidentale su casi recenti riguardanti licenziamenti illegittimi e differenti tutele risarcitorie tra dipendenti della stessa impresa con lo stesso inquadramento e la stessa situazione. L’Alta Corte ha allargato i paletti della tutela anche nelle piccole imprese in caso di nullità del licenziamento, prevedendo la reintegra sul posto di lavoro e l’indennità di risarcimento. Così facendo ha dato nuova vita all’Art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che altrimenti avrebbe dovuto andare “in pensione” insieme ai lavoratori più anziani nelle aziende con più di 15 dipendenti.
Ma il quesito della Cgil fa una operazione più profonda e drastica: cancella ab origine, per tutti e senza bisogno di chiedere giustizia in un tribunale, la norma da cui prende forma il contratto a tutele crescenti, quello che intendeva abolire la reintegra e quindi la parte “viva” dell’Art.18. Infatti, in caso al referendum la norma relativa venisse abrogata, non si tornerebbe al vecchio Art.18 originale ma alla successiva legge Fornero del 2012 per le aziende sopra i 15 addetti e all’indennizzo senza reintegra ma anche senza una ridicola soglia nelle aziende sotto i 15 dipendenti, in ottemperanza con la legge 604 del 1996.
L’altro quesito referendario che si riferisce al Jobs Act è il terzo, quello che la Cgil ha definito “per un lavoro stabile” e riguarda un altro decreto attuativo della riforma Renzi – il decreto 81 del 2015, articolo 19 – quello che nello sventagliamento delle 47 tipologie contrattuali del Jobs act aveva nascosto la liberalizzazione del contratto a tempo determinato. In aggiunta il quesito deve intervenire per abrogare contestualmente anche un pezzo del decreto Lavoro varato nel 2023 dal governo di Giorgia Meloni. In questo modo si intende ripristinare la necessaria causalità del contratto a tempo determinato, il datore di lavoro sarebbe dunque nuovamente tenuto a dare una motivazione sul perché l’assunzione che intende fare è solo a tempo parziale.
Il secondo quesito è denominato “per un lavoro dignitoso” e riguarda la legge 604 del 1966, laddove stabiliste un tetto massimo per i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese tra 12 e 24 mensilità. Anche su questo argomento di recente si è già espressa, nello stesso senso, la Corte Costituzionale a fine marzo 2023, riconoscendo al giudice piena capacità di decidere il quantum del risarcimento senza rispettare alcun tetto massimo.
Infine c’è il quarto quesito, “per un lavoro sicuro”, relativo agli infortuni sul lavoro e alla responsabilità dell’impresa appaltante in solido con la ditta da cui dipende sul subappalto. Qui tra i vari commi e articoli di legge che si vanno ad abrogare per consentire questa condivisione di responsabilità sulla sicurezza del lavoro si interviene su norme del 2008, del 2007, del 2013 e anche del 2021.
Del Jobs act non verrebbe in ogni caso abolita la Naspi, l’indennità di disoccupazione che copre tutti i lavoratori subordinati o parasubordinati che perdono il lavoro e che ai tempi del governo Renzi andava sotto il nome di Aspi.