Top menu

Alcoa, il fallimento del privato assistito

Nel 1992, quando cedette le fonderie dell’Efim all’Alcoa, lo stato italiano garantì aiuti ed extraprofitti sia alla multinazionale Usa che all’Enel. Finita la festa, i banchettanti scappano. Una vicenda che, cifre alla mano, smentisce la retorica del “privato è meglio”. Come ne usciamo, adesso?

Fino alla metà degli anni ’90 le principali imprese della metallurgia di base dell’alluminio facevano parte dell’Efim, la finanziaria delle partecipazioni statali posta in liquidazione nel 1992 in seguito alle perdite accumulate; nel 1996 le aziende furono cedute a società internazionali specializzate e le fonderie – i cosiddetti smelter – furono acquistate dalla statunitense Alcoa.

Il prezzo di vendita degli smelter rappresentò una componente del tutto marginale del contratto; l’accordo riguardò infatti sia gli impianti sia la fornitura decennale di energia elettrica da parte dell’Enel, allora ente pubblico interamente posseduto dallo stato, a una tariffa di circa 18 euro per megawatt/ora, all’incirca pari alla metà di quella media di mercato. Dal punto di vista economico la cessione avvenne a un valore negativo, perché lo stato, tramite l’ente elettrico monopolista, si impegnò a sovvenzionare con tariffe agevolate la società acquirente per un decennio.

L’accordo Italia/Alcoa, 1992

L’importanza della disponibilità e del prezzo dell’elettricità deriva dal fatto che negli smelter il principale fattore produttivo è l’energia elettrica poiché, per estrarre il metallo dal semilavorato di base, l’allumina, è utilizzato un processo elettrochimico fortemente “energivoro”. Secondo i dati riportati nel sito dell’Alcoa, nel 2011 l’impianto di Portovesme, pur ammodernato nel biennio precedente, per produrre 150.000 tonnellate di alluminio, pari a meno del 10 percento della domanda italiana, ha impiegato 2,3 miliardi di kilowatt/ora, lo 0,7% dell’intero consumo di energia del nostro Paese. Esso corrisponde alla quantità di energia prodotta da un campo di pannelli solari esteso per 20 kilometri quadrati ed è sostanzialmente pari a quella consumata dai residenti della città di Roma per uso civile.

Il contratto con l’Enel assicurò all’Alcoa condizioni di profitto stabili per 10 anni, riducendo al contempo gli stimoli all’ammodernamento dell’apparato produttivo. Nel 1996 la Commissione europea autorizzò l’operazione non ravvisando l’esistenza di aiuti di stato anche se con la privatizzazione, non solo le vecchie perdite dell’Efim ma anche i nuovi profitti dell’acquirente furono posti a carico di un ente pubblico, l’Enel.

Prima dello scadere del contratto, l’Enel fu privatizzata e il governo emanò due decreti che, attraverso un complesso prelievo parafiscale, trasferirono l’onere della fornitura agevolata di energia elettrica direttamente sulle bollette degli italiani. Con le parole della Commissione Europea: “la tariffa è sovvenzionata mediante un pagamento in contanti da parte della Cassa Conguaglio, che è un ente pubblico, a riduzione del prezzo fissato contrattualmente tra Alcoa e il suo fornitore Enel. Le risorse necessarie sono raccolte mediante un prelievo parafiscale applicato alla generalità delle utenze elettriche mediante la componente A4 della tariffa elettrica”. Il meccanismo era tale che successivamente al 2005, gli italiani hanno pagato non solo gli aiuti all’Alcoa ma anche ulteriori profitti di Enel, ora privata, conseguenti a condizioni contrattuali che la controparte aveva scarso interesse a negoziare al ribasso.

Secondo i dati della Commissione Europea, nel solo triennio 2006/2008, l’ammontare delle sovvenzioni ricevute dall’Alcoa per i due smelter italiani è stato pari a 540 milioni di euro, dei quali 415 per lo stabilimento di Portovesme in Sardegna. Si tratta di valori di gran lunga superiori alle perdite di bilancio registrate quando lo smelter era gestito dall’ente delle partecipazioni statali più disastrato.

Lo stop europeo, 2009

Nel novembre del 2009 la commissione europea ha stabilito che i suddetti sussidi costituiscono un aiuto di stato e ha imposto all’Alcoa la restituzione di circa 300 milioni di euro.

In seguito al provvedimento della Commissione europea sono stati presi una serie di interventi:

  1. l’Alcoa ha presentato ricorsi alla Corte di Giustizia di Strasburgo avverso tale decisione;

  2. la società ha chiuso il piccolo stabilimento di Fusina nel Veneto e ha avviato un piano di ammodernamento dello smelter di Portovesme;

  3. all’inizio del 2010, il governo ha emanato il decreto legge 3/2010 riguardante il rafforzamento della sicurezza del sistema elettrico insulare che con fantasia legislativa ha consentito all’Alcoa di continuare a ricevere l’energia elettrica a 30 euro al megawatt rispetto ad un prezzo medio di mercato superiore a 70.

La Corte di Giustizia ha rigettato il ricorso dell’Alcoa contro l’immediata esecutività della decisione della Commissione europea; subito dopo, l’Alcoa ha deciso la cessione del sito di Portovesme o la sua chiusura in caso di assenza di acquirenti; il giudizio di merito della Corte di Giustizia è ancora pendente, ma il suo esito sembra scontato.

Cosa ne resta

La vicenda dell’Alcoa è per molti versi paradigmatica di come si svolga l’attività economica, quantomeno nel nostro paese:

  • Almeno nel caso delle fonderie di alluminio, la gestione privata è stata meno efficiente di quella pubblica tanto che gli oneri a carico della collettività sono progressivamente cresciuti secondo meccanismi sempre più opachi. Sotto la gestione pubblica, il costo per la collettività era pari alle perdite di bilancio, un valore univoco e noto, mentre in quella privata gli oneri sono pari alla somma di incentivi, sconti, sovvenzioni riconosciuti in forme più o meno esplicite e complicate, variabili nel tempo, di difficile quantificazione e non soggetti a una efficace rendicontazione pubblica.

  • Il mercato, inteso come luogo astratto dove avvengono gli scambi e le schede di domanda e offerta garantiscono la formazione di prezzi di equilibrio e l’ottimale allocazione delle risorse è una semplificazione che trova rarissima applicazione nella realtà. Il modello che attribuisce all’autorità pubblica soltanto la funzione di regolamentazione e controllo è disatteso quotidianamente; ne sono testimonianza i numerosi casi di questi ultimi anni (ad esempio l’onerosa vicenda Alitalia) e le stesse vicende degli ultimi giorni.

    Dalla vicenda Alcoa anche la Commissione europea non ne esce bene; aldilà delle motivazioni giuridiche che sottostanno a due opposte decisioni, appare indubitabile che, sul piano economico, già dal 1996 l’Alcoa beneficiò di aiuti da parte dello stato italiano che non furono sanzionati. E sorge il dubbio che tale decisione possa essere stata indirizzata da pregiudizi ideologici in favore dell’attività privata, aprioristicamente ritenuta migliore di quella pubblica.

In generale dal caso Alcoa emerge che la selva di incentivi versati dallo stato alle imprese, anche come risultato delle attività di lobby da parte di gruppi di interesse, sfugge ad una chiara rendicontazione pubblica. Perché la spending rewiew abbia un senso economico, occorre che la spesa pubblica sia spostata da improduttiva a produttiva e che l’effetto degli incentivi e dei disincentivi (imposte e tasse) sia monitorato, anche in termini di distribuzione del reddito. La crisi sollecita il governo a produrre tempestivamente nuove ed efficaci informazioni preventive e consuntive dei costi e dei benefici pubblici relativi agli aiuti all’attività economica.

Cosa servirebbe

Il caso Alcoa ha anche messo in evidenza la mancanza di una valida politica industriale da parte del Governo che si sta manifestando con l’assenza di una risposta alla domanda chiave “come risolvere la questione dello smelter di Portovesme?”.

E’ paradossale che l’impianto, dopo aver funzionato per molti decenni con livelli di produttività dell’energia molto bassi, venga chiuso immediatamente dopo i primi interventi di ammodernamento; peraltro, secondo i dati desumibili dal sito dell’Alcoa sussisterebbero ampi margini per accrescere l’efficienza della fonderia: i migliori smelter impiegherbbero circa 11,5 Mw/h per tonnellata di alluminio prodotto, mentre lo stabilimento sardo circa il 25 per cento in più.

Per trovare un compratore occorrono comunque soluzioni in grado di rendere paragonabile il costo del fattore produttivo energia elettrica a quello di altri paesi, anche extraeuropei. I nuovi siti dell’Alcoa sono stati aperti in Islanda insieme a un impianto idroelettrico e sono in corso di realizzazione grandi stabilimenti in Arabia Saudita, ossia in paesi dove il prezzo dell’energia è molto basso. L’eventualità di una cessione si presenta di non facile realizzazione – come dimostra la rapida uscita di scena della svizzera Glencore, che aveva manifestato un qualche interesse alla trattativa.

Dato il maggiore prezzo dell’energia nel nostro Paese, se si vuole mantenere la metallurgia di base in Sardegna è, come minimo, indispensabile che la produttività cresca al livello degli impianti più efficienti; il risparmio potenziale di energia elettrica corrisponderebbe ad almeno tre volte quella prodotta dal grande parco eolico da poco inaugurato a Portoscuso, vicino allo smelter, da parte dell’Enel Green Power.

Per avere più solide prospettive di conservazione dell’apparato produttivo sarebbe opportuno verificare se è possibile raggiungere una produttività superiore con le più recenti tecnologie. A tal fine il governo ha preso contatti con atenei e politecnici per avere attendibili risposte tecniche e formulare un business plan ragionevole?

Inoltre, nell’attuale situazione di crisi, l’autorità pubblica ha valutato le interdipendenze con la filiera produttiva a monte e a valle, per esempio con la centrale termoelettrica e con le miniere del Sulcis? Ha preso in considerazione l’ipotesi di un rinnovato intervento diretto dello stato, soluzione comunque preferibile rispetto a pasticciate soluzioni private sovvenzionate da nuovi mascherati incentivi? Si è domandato quale sarebbe la posizione dell’Europa nei confronti di tale politica, comunque più trasparente rispetto al passato?

In ogni caso, poiché ci dovranno essere importanti risparmi nell’utilizzo di energia, occorre decidere cosa fare dei maggiori prelievi parafiscali sulle bollette degli italiani. Ridurre le bollette? Oppure utilizzare il maggior prelievo come sostegno al reddito dei lavoratori sardi (l’ammontare complessivo è sufficiente per pagare sussidi a migliaia di lavoratori)? Ovvero utilizzarlo per altre iniziative industriali? Se il ministro dello sviluppo economico ha qualche idea, è il momento di rappresentarla.