Lavoro povero e declino economico: è questa la fotografia del Paese che emerge dal Rapporto annuale Istat. Ma non è avvenuto per caso, piuttosto da trent’anni di politiche che hanno peggiorato le condizioni di lavoro. I referendum dell’8 e 9 giugno sono l’occasione per cancellare alcune di queste politiche.
Lavoro povero e declino economico: è questa la fotografia del Paese che emerge dal Rapporto annuale presentato ieri dall’Istat. Nel 2024 il Pil è cresciuto dello 0,7%, grazie alla tenuta delle esportazioni, mentre scendono consumi e investimenti. La produttività per ora lavorata è caduta dell’1,4%, gli investimenti non residenziali sono diminuiti, il volume della produzione industriale è calato del 4%, aggravando la caduta del 2% del 2023.
Le persone che lavorano aumentano di 350 mila, ma per l’80% si tratta di ultra 50enni a cui è stato rinviato il pensionamento; il 40% di chi lavora oggi in Italia ha più di 50 anni. Il 17% di tutti i lavoratori è part-time e tra le donne la quota è del 30%. Tra i giovani sotto i 34 anni un terzo ha contratti a tempo determinato o part-time.
Sul fronte dei salari è un disastro: rispetto al 2018 i salari di oggi hanno perso il 10% del loro valore reale (in Germania sono aumentati del 14%). Tra inizio 2019 e fine 2024, le retribuzioni contrattuali sono cresciute la metà dell’inflazione (10% contro 21,6%). E metà dei lavoratori dipendenti sono in attesa di rinnovi contrattuali. Con redditi di questo tipo, il 23% della popolazione è a rischio di povertà, e al Sud si arriva al 40%.
Le conseguenze? Due terzi dei giovani sotto i 35 anni non possono avere una vita autonoma e vivono ancora in famiglia; nel 2023 21 mila giovani laureati tra i 25 e 34 anni sono emigrati all’estero, quasi 100 mila in dieci anni.
Fin qui l’Istat. Ma se guardiamo al di là dei dati medi nazionali, troviamo situazioni drammatiche. Se consideriamo le due milioni di posizioni lavorative peggio pagate, troviamo compensi annuali medi sotto i 700 euro, spesso per contratti di poche settimane, pagati se va bene 8 euro l’ora, con lavoratori che passano da un contratto all’altro. Sono gli effetti della precarizzazione del lavoro, dell’indebolimento del sindacato, dello strapotere delle imprese. A essere più colpiti sono i giovani – e i giovani laureati più degli altri – le donne, gli immigrati.
Sono questi i risultati di trent’anni di politiche che hanno peggiorato i contratti e le condizioni di lavoro. Chi lavora è stato diviso in mille modi: tra chi ha i vecchi contratti con tutele adeguate e chi ha quelli, dopo il 2015, che consentono di licenziare senza giusta causa; tra chi lavora in imprese normali e chi è in piccole imprese più a rischio di licenziamento; tra chi è esposto a rischi di infortuni e chi è più al sicuro. Ma le disparità sono soprattutto tra chi ha un lavoro stabile e chi passa da un contratto precario all’altro, senza motivazioni adeguate; tra chi è a tempo pieno e a tempo parziale: quasi il 30% di lavoratori e lavoratrici è oggi a tempo determinato o part-time. E per chi arriva dall’estero la vita si è fatta più difficile: per diventare cittadini italiani siamo passati da cinque a dieci anni di residenza legale in Italia.
Con queste divisioni si è frammentata la società, siamo diventati più poveri e disuguali. Già: dove sono andati allora gli aumenti di reddito? È semplice: ai più ricchi. Il 10% più ricco degli italiani ha ora quasi il 40% del reddito totale (era il 28% quarant’anni fa). E soprattutto ai super-ricchi: l’1% più ricco ha raddoppiato la propria fetta della torta del reddito.
È questa l’Italia che vogliamo? Facciamo fatica a dire – collettivamente – di no. A riconoscere che siamo andati nella direzione sbagliata. Ma hanno detto di no – individualmente, in silenzio – anche i 150 mila cittadini italiani che sono emigrati all’estero nel 2024. A loro, e a tutti, dovremmo offrire un lavoro dignitoso, stabile, pagato non la metà dei salari tedeschi.
«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza dei cittadini». Ce lo dice la Costituzione, all’Articolo 3. Purtroppo, sono trent’anni che questi ostacoli non vengono rimossi, ma vengono innalzati. Le politiche dei governi hanno dimenticato gli obiettivi di libertà e uguaglianza tra le persone.
I referendum dell’8 e 9 giugno sono l’occasione per cancellare alcune di queste politiche sbagliate, politiche che hanno alimentato la sfiducia e aggravato la crisi della democrazia. Cambiare è possibile, è possibile dare più protezione a tutti. In un mondo pieno di derive autoritarie, lo strumento che abbiamo è proprio la pratica della democrazia, a cominciare dalla partecipazione al voto per i referendum. L’abbiamo scritto nell’Appello «Vivere da cittadini, lavorare con dignità» lanciato da 40 personalità, tra cui il Premio Nobel Giorgio Parisi. L’8 e il 9 giugno portiamo a votare chi non vota più, chi è stato più colpito dall’esclusione e dalla precarietà. Per cambiare strada, per diventare un po’ meno disuguali, l’8 e il 9 giugno votiamo cinque Sì.
Articolo pubblicato anche da il manifesto del 22 maggio 2025