Un modello alternativo di mobilità potrebbe rendere più vivibili le città e più agili i trasporti, aumentando anche l’occupazione nel settore (il che non guasta)
Il calo della vendita di automobili nel mondo occidentale non è contingente ma la crisi di un sistema maturo. Dopo un grande successo, con 35 milioni di veicoli in circolazione in Italia e il 65,5% di cittadini che la usa ogni giorno, il modello auto mostra i suoli limiti. Limiti della crescita innanzitutto soprattutto in ambito urbano ormai teorie di auto accatastate; e crescono i limiti alla mobilità che non è più garantita dall’auto nello spazio e nel tempo, con i tetti antismog, le Zone a Traffico Limitato telematiche, il pagamento della sosta, con l’ecopass e le corsie riservate ai mezzi pubblici. Una storia recente in cui l’automobile piano piano è stata costretta a ritirarsi. Magari conquistando altri spazi nelle megaperiferie derivate dallo sprawl urbano fatto di residenze, capannoni, centri commerciali e cinema multiplex. Ma la crescita è ormai lontana e la necessità di puntare sulla mobilità sostenibile richiede idee e progetti per la riconversione del sistema produttivo dell’automobile e del sistema di trasporti basato sul tutto strada.
La conversione deve avvenire secondo un progetto industriale coerente che incida sui veicoli, sui servizi di trasporto e sulle reti infrastrutturali, in cui le istituzioni pubbliche e il Governo abbiano un ruolo di orientamento decisivo secondo quattro linee guida:
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il graduale ridimensionamento del sistema produttivo attuale (di fatto già in corso) e la sua conversione verso veicoli dedicati al trasporto collettivo, ai sistemi innovativi di mobilità, a veicoli a basso impatto ambientale per spostamenti individuali;
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la produzione di un’auto pulita, a basse emissioni, sicura, riciclabile, per il mercato sostitutivo delle auto in circolazione e la promozione della ricerca per veicoli innovativi e carburanti “puliti” basati su energia rinnovabile;
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il potenziamento dei servizi di trasporto collettivi su ferro e gomma e la predisposizione di un sistema di servizi innovativi legati all’automobile (carsharing, integrazione con il Trasporto Pubblico Locale [TPL], servizi a chiamata, trasporto scolastico, trasporto persone a mobilità ridotta, consegna merci a domicilio);
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la promozione di un sistema di logistica integrata per il trasporto delle merci che punti all’intermodalità tra il trasporto su strada (da ridimensionare), il cabotaggio e il trasporto ferroviario (da incrementare).
Se si confrontano i dati italiani con il resto dei paesi europei, soprattutto con la Germania, si nota che in quel paese su un totale di 1.317.000 addetti nei servizi di trasporto, lavorano nell’autotrasporto il 23,4% pari a 309.000 unità (meno dell’Italia) e il 22, 2% (ben 292.500 addetti) è impiegato nel trasporto pubblico e privato su strada. Praticamente il doppio dell’Italia, dove il 34% di occupati lavora nell’autotrasporto e solo il 15,4% degli addetti totali nel trasporto collettivo. Già da questo confronto con un paese odierna locomotiva d’Europa, possiamo trarre suggerimenti su cosa dovremmo fare anche in Italia: aumentare i servizi di trasporti ai passeggeri e ridimensionare il trasporto stradale con l’intermodalità della gomma con ferro e mare. Già oggi una stima prudente di esperti del settore indica che il personale direttamente impegnato per la produzione dell’intermodalità terrestre è dell’ordine di 4.000/5.000 persone. Sono questi i settori innovativi da far crescere.
Peccato che in questo momento in Italia la strada intrapresa sia esattamente opposta. Il Governo ha tagliato le risorse per il trasporto collettivo su ferro (circa 20%) e le Regioni alle prese con i tagli della manovra Tremonti stanno ridimensionando anche il trasporto su autobus e/o aumentando le tariffe per il mantenimento dei servizi esistenti. Insomma nessun piano di efficienza serio del settore che riduca i costi, innovi i servizi e rilanci il settore.
Allo stesso modo una forte innovazione è richiesta nei servizi di trasporto delle persone a domanda individuale dato che solo una parte di spostamenti può essere risolto a costi accessibili con il trasporto collettivo. L’obiettivo è quello non di vendere automobili in proprietà ma servizi di trasporto in auto: carsharing, autonoleggio “facile”, taxi collettivo e noleggio con conducente. Qui si trova un reale spazio di innovazione e servizi a iniziativa privata, che non riesce a decollare e che anzi viene ostacolato sia per inerzia e sia dalle rendite di posizione. Non mancano segnali incoraggianti come i circa 900 mobility manager occupati in aziende private (4) e uffici pubblici nati negli ultimi anni e la recente Centrale di Mobilità inaugurata a Milano promossa da Legambiente, che aiuta il cittadino a orientarsi verso la mobilità intelligente (5).
Nel trasporto merci le cose non vanno meglio. Con il trasporto ferroviario in caduta libera, il sistema portuale impantanato con una riforma che si attende da anni ma soprattutto senza l’autonomia finanziaria che gli consenta di pianificare investimenti e strategie convincenti per competere nel Mediterraneo (vedi la crisi recente nel porto di Gioia Tauro), poche le briciole destinate all’ecobonus per il trasporto combinato ma ben 400 milioni per il 2011 di aiuti all’autotrasporto su strada. Insomma la solita strategia di grandi aiuti all’autotrasporto (ben 5 miliardi in dieci anni [6]) e quasi nulla a tutto il resto; nonostante il recente Piano Nazionale della Logistica 2011-2020 (7), adottato dalla Consulta istituita dal Governo, indichi 50 azioni concrete in parte utili per promuovere efficienza e intermodalità, che con queste politiche sono destinate a restare sulla carta.
Passiamo adesso al sistema di produzione dei veicoli, direttamente coinvolto nel caso Fiat, con un dibattito che oltre sul lavoro, diritti e democrazia, non può che coinvolgere la produzione e il sistema industriale, come è stato fatto di recente nello speciale de il manifesto e Sbilanciamoci (8). Attualmente nel “sistema automobile” (9) sono impiegati complessivamente 130.000 addetti, mentre il segmento di produzione degli autobus ne occupa circa 10.000 (10), quello del ferroviario e tramviario (tra grandi aziende e indotto) circa 15.000, infine il mondo delle due ruote (moto, ciclomotori e bicicletta) occupa circa 13.500 addetti alla produzione (11). Se vogliamo parlare di riconversione del sistema da un lato dobbiamo indurre un ridimensionamento del sistema auto, che comunque manterrà sempre una quota significativa di produzione, sia per il mercato sostitutivo e sia per l’innovazione di prodotto e di servizi, con un’auto a basse emissioni, sicura, riciclabile, a energia rinnovabile. Un veicolo che ancora non c’è e che richiede un progetto di ricerca pubblico/privato credibile, che coinvolga centri di ricerca, università, intelligenze, legato direttamente alla soluzione del problema dei carburanti dopo la fine del petrolio.
Evitando facili e inutili promesse risolutive a cui abbiamo assistito in questi anni prima con l’auto a idrogeno (che è un vettore e non una fonte energetica), poi con l’auto a mais ed etanolo (che però ha il non piccolo problema di richiedere un’inaccettabile riconversione delle produzioni agricole dall’alimentazione all’automobile, con la riduzione delle foreste e della biodiversità, per far posto alla canna da zucchero). Infine l’auto elettrica oggi tornata di gran moda, che tra limiti delle batterie, dell’autonomia funzionale e della produzione elettrica (non ci sarà dietro la spinta al nucleare?) non è al momento in grado di rispondere alle promesse di un’auto “sostenibile” (12). Non voglio con questo denigrare le interessanti ricerche in corso con successi e insuccessi, ma sottolineare che in realtà queste soluzioni non sono vicine: anche per questo è fondamentale che un progetto di ricerca stia all’interno di una strategia industriale dal Governo e sia promosso anche con risorse pubbliche.
L’altra strategia essenziale nel settore industriale è puntare all’aumento della produzione di autobus, treni, tram; tutti segmenti produttivi che oggi sono in forte sofferenza sia perché mancano investimenti pubblici per l’ammodernamento dei mezzi di trasporto collettivo e sia perché questo alimenta la debolezza delle nostre imprese nella concorrenza globale. Nonostante punti di vera eccellenza come Ansaldo STS nel sistema del segnalamento ferroviario, azienda primaria a livello mondiale che continua ad aggiudicarsi appalti in tutto il mondo. Mentre AnsaldoBreda, azienda storica di Pistoia per la costruzione di treni, è in difficoltà, forse adesso un poco sollevata dall’aver vinto nel 2010, in alleanza con Bombardier, la gara da 1,5 miliardi indetta da Trenitalia per la fornitura di 50 treni ad Alta Velocità. Tuttavia nessun investimento significativo sta arrivando al settore del trasporto ferroviario metropolitano e regionale: al contrario, per ovviare ai tagli relativi al servizio ferroviario pendolare, il Governo ha dirottato le scarse risorse (460 milioni) destinate all’acquisto di treni nuovi e quindi ormai del necessario piano per i 1.000 treni per i pendolari del costo di 6 miliardi (come il ponte sullo Stretto!) è rimasto ben poco.
Sappiamo bene che gli investimenti pubblici devono essere messi a gara ed è giusto che vinca il migliore a livello mondiale, ma in Italia manca completamente una strategia industriale per questi settori, che aggreghi imprese e indotto (per esempio con incentivi fiscali) e metta le nostre aziende in grado di competere a livello mondiale: quello che fa il Governo in Francia con Alstom (26.000 addetti) o il Canada con Bombardier (28.644 addetti).
E quando si investe i risultati si vedono. Grazie alla strategia lungimirante dell’ex assessore ai trasporti della regione Campania Ennio Cascetta – che ha puntato sul sistema di metropolitana regionale e ha investito in dieci anni circa 300 milioni per il nuovo materiale rotabile – la filiera delle costruzioni ferroviarie campana che ha vinto le gare indette da EAV (holding trasporti della Regione) ha incrementato fatturato e addetti (13). Dal 2004 al 2008 è passata da 3.284 a 4.068 lavoratori mentre il settore automobile nello stesso periodo è diminuito da 18.500 a 16.900 addetti. Ora le stesse aziende hanno vinto con lo stesso prodotto una importante commessa in Brasile.
Infine anche nel campo degli investimenti infrastrutturali serve riorientare la spesa dalle grandi opere inutili e dalla costruzione di nuove autostrade programmate verso le reti per la mobilità su ferro urbana e regionale, in coerenza con la strategia di sostegno verso la mobilità sostenibile. Metropolitane, tramvie e ferrovie suburbane sono il vero buco nero del nostro sistema di trasporti. In Italia esistono 161 km di metropolitane e 591 km di ferrovie suburbane, mentre in Germania sono ben 606 km di metro e 2.033 km di ferrovie urbane, dati analoghi presentano Francia, Spagna e Gran Bretagna (vedi rapporto Pendolaria 2010 Legambiente [18] e i recenti dati presentati da Isfort-Federmobilità [19]). E questo è anche un modo concreto per dare occupazione nel settore delle costruzioni per opere utili.
La regione Campania dal 2000 al 2008 ha investito 3 miliardi nel sistema di metropolitana regionale: questa spesa costante in infrastrutture su ferro ha prodotto anche significativi dati occupazionali. Il Cesit (Centro Studi sui Sistemi di Trasporti) con dati elaborati per Acam (l’Agenzia Campana per la Mobilità di cui sono stata direttore per due anni) ha stimato un effetto occupazionale complessivo di 51.917 addetti, che hanno significato ogni anno 6.490 occupati negli interventi della rete metropolitana regionale (20). È un esempio importante che ha ancora più valore perché collocato nel Mezzogiorno d’Italia dove la disoccupazione è un dramma di proporzioni bibliche. Manca di nuovo il Governo, che d’intesa con le Regioni e le città metropolitane individui una spesa costante e duratura per questi investimenti infrastrutturali riconvertendo la spesa per le grandi opere inutili.
Non sfugge a nessuno che la principale obiezione che verrà alla riconversione del sistema “tutto auto” verso un sistema di mobilità più appropriato e sostenibile, è che c’è bisogno di inge ti risorse pubbliche e private per poter camminare. E in tempi di risorse pubbliche scarse questo è un problema molto serio.
Una parte della spesa deve essere riconvertita da sussidi perversi che vengono destinati attualmente a sistemi da disincentivare come l’autotrasporto e le grandi opere inutili da destinare a trasporto combinato e infrastrutture ferroviarie urbane. In alcuni settori innovativi legati ai servizi di trasporto a domanda individuale dovrà essere incoraggiata e sostenuta l’iniziativa privata. Le aziende di trasporti pubblici su gomma e ferro dovranno fare la loro parte per l’efficienza dei costi perché è impensabile aumentare i servizi aumentando i debiti: efficienza, innovazione e rilancio devono essere diverse facce di una stessa strategia. La ricerca scientifica per veicoli innovativi e sui carburanti puliti e rinnovabili dovrebbe far parte di un filone di ricerca su cui investire per il futuro con la ricerca pubblica, così come gli investimenti per autobus e treni dovrebbero far parte di un progetto industriale promosso dal Governo.
Se si innesta un circolo virtuoso probabilmente anche la spesa delle famiglie che oggi destinano circa 115 miliardi ogni anno per l’uso dell’automobile (21) potrà essere riconvertita verso servizi di trasporto collettivo, verso servizi innovativi legati all’auto, alla bicicletta, al carsharing, sostenendo quindi la redditività di questi servizi offerti alla collettività.
Nel dibattito su Mirafiori c’è un dato che mi colpito e che è proprio alimentato dal sistema perverso di trasporti che non paga i suoi costi reali e scarica sulla collettività le esternalità negative. Il piano di rilancio punta a costruire Suv per il mercato americano, con componenti che provengono dagli Stati Uniti, assemblati a Torino, riportati e rifiniti negli Usa e infine pronti per la vendita. Ecco un tipico sistema di trasporti insostenibile che andrebbe scoraggiato ma questa è una delle tante distorsioni della globalizzazione.