La rotta d’Italia. I fondi della previdenza complementare hanno un patrimonio di 100 miliardi di euro, che finisce nei circuiti della finanza internazionale. Potrebbe invece finanziare gli investimenti e l’occupazione in Italia
L’Italia ha bisogno di un Piano per ristrutturare il suo sistema economico-sociale da almeno un paio di decenni; la crisi globale ha ulteriormente accentuato questa esigenza e, più in generale, la necessità di un profondo cambiamento nei rapporti tra mercati, istituzioni e parti sociali. La Cgil nel suo Piano del lavoro – evidenziando già nel nome il punto di riferimento da cui partire – auspica giustamente “un ritrovato protagonismo dell’intervento pubblico”.
Per il reperimento delle risorse finanziarie la Cgil indica diverse modalità. Una di queste – peraltro solo enunciata nel documento, ma ripresa dalla Camusso nella sua relazione e in successive interviste – è legata all’impiego dei fondi pensione per favorire la canalizzazione di risparmio previdenziale verso investimenti di lungo periodo, garantendone i rendimenti.
Due possibilità di questo tipo sono state suggerite a più riprese nel Rapporto sullo stato sociale redatto nel Dipartimento di Economia e Diritto della Sapienza. E’ dunque utile richiamarle, anche per contribuire concretamente a un programma di governo.
Tutti i fondi pensione della previdenza complementare (FP) attualmente gestiscono un patrimonio di circa 100 miliardi di euro, che è costantemente in crescita; il flusso annuo di contributi è di circa 12 miliardi di euro, di cui oltre 5 vengono dal Tfr, ma solo una parte irrisoria torna al nostro sistema produttivo. I FP negoziali – quelli amministrati da imprese e sindacati – gestiscono un patrimonio prossimo ai 30 mld, ma investono in azioni italiane solo lo 0,8%, mentre il 70% è investito all’estero. In modo simile si comportano gli altri FP a causa della ristrettezza della Borsa italiana dove le nostre imprese, per lo più medio-piccole, hanno scarsa disponibilità a quotarsi. Nel 2011, Il capitale dei FP impiegato in titoli di stato italiani, è calato a seguito della crisi dei debiti sovrani, ma è stato comunque pari a 18 mld; i soli FP negoziali ne detenevano 6,6 mld ma attualmente la cifra è risalita.
Dunque, i FP assorbono risparmio previdenziale che, in gran parte se ne va all’estero a finanziare i nostri concorrenti; la parte che rimane in Italia è investita fondamentalmente in titoli del debito pubblico. Naturalmente sarebbe auspicabile che una parte maggiore delle risorse gestite dai FP rimanesse nel nostro paese e contribuisse a migliorare le strutture produttive e sociali; a tal fine, sindacati, imprese e stato potrebbero concordare forme d’investimento da parte dei FP in titoli pubblici pensati ad hoc, perseguendo due obiettivi.
In primo luogo, andrebbero ottimizzati i rendimenti e la loro stabilità, corrispondendo alle specifiche esigenze del risparmio previdenziale che è un bene meritorio; il maggiore stimolo per i FP ad acquistare questi titoli pubblici italiani costituirebbe per lo stato una più ampia fonte di finanziamento, con effetti benefici anche sui tassi. Questi titoli potrebbero essere acquistati direttamente dai FP, eliminando anche i costi d’intermediazione dei gestori finanziari la cui funzione, invece, rimane necessaria per tutti gli altri tipi d’investimento dei FP onde evitare i pericolosi conflitti d’interesse.
Realizzare questo primo obiettivo sarebbe già un apprezzabile risultato finanziario, ma potrebbe favorirne un secondo più ambizioso – di tipo economico, sociale e politico se il maggior flusso di risorse diretto verso il settore pubblico avesse una destinazione d’uso ovvero se imprese, sindacati e stato, coerentemente alla natura di lungo periodo del risparmio previdenziale, concordassero di investirlo in specifici progetti di rinnovamento delle infrastrutture sociali e produttive il cui costante degrado è tra le principali cause del nostro “declino”. Dunque, stato e parti sociali, collaborerebbero nella definizione di un Piano di rilancio del Paese, utilizzando risparmio previdenziale raccolto dai FP cui garantirebbero rendimenti migliori e più stabili.
La seconda proposta parte dalla considerazione che gli attuali canali della previdenza complementare, nonostante i molti incentivi, attirano solo un quarto dei potenziali aderenti, rispetto all’obiettivo fissato al 40%. A questo riguardo va precisato che i FP possono svolgere un ruolo positivo se è aggiuntivo ma non sostitutivo rispetto al sistema pubblico a ripartizione il quale, per motivi d’efficienza, di efficacia e di equità derivanti dai suoi minori costi gestionali, dalla maggiore stabilità dei rendimenti e dalla possibilità di praticare trasferimenti solidaristici socialmente condivisi, deve essere il pilastro fondamentale per assicurare ai lavoratori, anche indipendentemente da periodi di disoccupazione involontaria, una pensione sufficiente a vivere dignitosamente negli anni della vecchiaia. Dopo le innumerevoli riforme tese prevalentemente a fare cassa e a indebolire il sistema pensionistico pubblico (le cui entrate contributive, peraltro, superano le prestazioni previdenziali al netto delle ritenute fiscali con un saldo attivo pari all’1,7% del Pil), il suo attuale assetto non sarà in grado di svolgere questa funzione; dunque occorrerà intervenire, cominciando col rimuovere le storture anche tecniche introdotte dalla riforma Fornero (basti pensare agli esodati). Ma a quanti dispongono di risparmio aggiuntivo e apprezzabilmente pensano di aumentare la loro copertura pensionistica andrebbero date più possibilità di scelta. Oltre ad aderire agli attuali FP finanziati a capitalizzazione, dovrebbero avere la possibilità (oggi negata) d’incrementare la stessa pensione pubblica finanziata a ripartizione aumentando, nella misura e per i periodi voluti, la contribuzione, disponendo anche dei contributi aziendali e degli incentivi fiscali attualmente concessi solo per l’adesione ai FP. La copertura pensionistica aggiuntiva così maturata non dovrebbe essere toccata da riforme del sistema pubblico, al pari delle prestazioni dei FP. Questa contribuzione aggiuntiva, che avrebbe il pregio contabile di aumentare le entrate pubbliche, dovrebbe confluire nello stesso fondo destinato a finanziare il Piano per gli investimenti di lungo periodo previsto nella prima proposta.
Ipotizzando che la metà dei lavoratori che oggi non aderiscono ai FP sia attratta dalla maggiore stabilità dei rendimenti e dall’elasticità d’adesione di questo nuovo canale previdenziale, versando gli stessi contributi previsti per i FP, oltre ad aumentare la loro copertura pensionistica, apporterebbero al fondo per gli investimenti di lungo periodo capitali freschi pari a circa l’1,4% del Pil.
Queste due proposte possono essere applicate con tarature diverse, ma comunque mostrano che obiettivi politici progressisti di crescita, di sviluppo sociale e di democrazia economica istituzionale (cioè con e non fuori o contro le istituzioni) – estranei alla logica dell’agenda Monti – possono essere perseguiti con progetti tecnicamente e finanziariamente compatibili.