Per la prima volta da anni, scende il rapporto tra immatricolati e diciannovenni. E si inverte così la marcia di avvicinamento ai paesi Ocse. Nei numeri del Nono Rapporto Cnvsu, l’identikit di un sistema universitario che chiude anzichè aprire. E le previsioni sugli effetti dei tagli
Corsi e concorsi. La proliferazione dei primi, lo scandaloso malcostume dei secondi. Finora soprattutto di questi si è parlato, come sintomi del male del sistema universitario italiano, e anche come pretesto per giustificare una manovra che ha invece come suo cuore e obiettivo la riduzione degli stanziamenti pubblici per l’istruzione universitaria in Italia. Meno si è parlato degli indicatori fondamentali, di quei dati che dicono se e come sta funzionando il sistema universitario: quanti diciannovenni vanno all’università? quanti di loro si laureano, con che tempi e quali costi? come si muovono gli studenti dentro e fuori i nostri confini? come li accompagna l’università una volta che li ha sfornati? Tutte domande di contorno, per cercare di approssimarsi a quella fondamentale: quanto valore diamo all’università in Italia?
Il Nono Rapporto del Cnvsu sullo stato del sistema universitarioi, presentato giovedì 11 dicembre a Roma con incredibile ritardo rispetto ai fatti e alle decisioni – ci si poteva aspettare che fosse analizzato e discusso prima: prima dei tagli, prima della salutare Onda che li ha contestati -, dà risposta a qualcuna di queste domande. A partire da una notizia choc: per la prima volta l’università perde iscritti. Nell’anno accademico 2006-2007 gli immatricolati sono scesi. E non solo in numero assoluto, fenomeno che in sé dice poco visto il calo della natalità e dunque delle coorti dei diciannovenni che si affacciano all’istruzione terziaria. Il fatto nuovo è che stavolta sono scesi anche in termini relativi: in proporzione al numero totale dei diciannovenni, e al numero dei diplomati. Il Rapporto informa che nell’anno 2006 si sono immatricolati 308.185 studenti e studentesse, cioè il 53,2% dei diciannovenni e il 68,5% di coloro che hanno preso la maturità. Rispetto all’anno precedente, il calo nel rapporto immatricolati/diciannovenni è di quasi tre punti percentuali, mentre la discesa del rapporto tra immatricolati e maturi è di circa 4 punti. Dunque, mentre continua ad aumentare la percentuale di ragazzi e ragazze che conseguono il diploma di scuola secondaria superiore, il trend dell’università si inverte. Gli atenei non attraggono più: mentre si dibatte e si sviscera il tema dell’università di massa – e molti nostalgici del bel tempo che fu attribuiscono alla “massa” tutti i mali – scopriamo che siamo ancora ben lontani dall’obiettivo. Non è una novità il fatto che nella classifica Ocse della percentuale di laureati sulla popolazione siamo agli ultimi posti, subito dopo il Cile e subito prima di Slovacchia, Repubblica Ceca, Turchia e Brasile. Solo che finora era in atto una lenta marcia di avvicinamento, con l’aumento delle coorti degli immatricolati. Adesso la marcia ha invertito la rotta e va all’indietro, mentre il governo procede a un disimpegno di fatto dal finanziamento delle università.
Viene così a cadere, o almeno a incrinarsi, uno dei principali vanti della riforma Berlinguer-Zecchino, integrata dalle variazioni Moratti: si sono moltiplicati corsi e sedi, si è forse peccato per eccesso, ma abbiamo portato nell’università un numero maggiore di studenti (o meglio: abbiamo portato l’università a domicilio a un numero maggiore di studenti). In aggiunta, i fan della riforma portavano anche altri dati: la riduzione del numero dei fuori corso, la riduzione della durata media degli studi universitari. Purtroppo anche questi indicatori, man mano che entrava a regime l’università del nuovo ordinamento, vanno peggiorando: adesso gli studenti in corso sono il 59,3%, la durata media della laurea “triennale” è di 4,6 anni – in un anno la regolarità degli studenti del nuovo ordinamento si è ridotta di 2 punti e mezzo percentuali. E questo, considerando anche il fatto che nella media del pollo ci sono anche i laureati-sprint del corrotto sistema degli sconti sostanziosi sui crediti fatti a intere categorie: poliziotti, carabinieri, dipendenti dell’Aci o delle Poste… il catalogo è lungo e già molto rappresentatoii. Tornando alla media generale, non va dimenticato il fatto che prima era molto peggio, dato che in media a laurearsi ci si metteva il doppio del previsto. E però questi indici che peggiorano man mano che si va avanti dicono che molte cose non sono andate come si sperava. Così come è certamente un fallimento del 3+2 il fatto che la quasi totalità degli studenti delle lauree triennali prosegua negli studi con la laurea specialistica.
Perché oggi l’università attrae di meno? Un’analisi sul contesto socioeconomico e sull’andamento nelle varie zone d’Italia potrebbe di sicuro dirci qualcosa in più. Però nell’anno di cui parliamo – 2006-2007 – non eravamo ancora alla crisi e all’impoverimento delle famiglie che viviamo oggi. Forse allora c’entrano qualcosa il credito dell’università nella società, l’esperienza di quel che succede dopo l’immatricolazione e dopo la laureaiii. E lo stato dell’università. Ad esempio: si è parlato della proliferazione dei corsi di laurea e degli insegnamenti (numeri aggiornati: 3.373 i primi, 180.001 i secondi) soprattutto per fare articoli di colore e denunciare il malcostume. Ma poco si è detto su quel che ha significato per gli studenti: il 40% di quei 180.000 insegnamenti – cioè esami – dà meno di 4 crediti, il che vuol dire che l’esperienza universitaria diventa uno slalom impossibile tra decine e decine di microesami. Si è parlato tanto della proliferazione delle sedi (adesso sono 272 i comuni che hanno almeno un corso di studi, solo 56 sono anche sedi di ateneo, 33 hanno zero immatricolati), ma un po’ meno di una variabile a questa collegata: la mobilità. Tra i numeri del Rapporto ce n’è uno agghiacciante: il 79,6% degli studenti immatricolati resta nella regione di residenza. In media, in Italia si muove – dunque, lascia la famiglia – un giovane su cinque. Forse è così perché cambiare regione costa troppo per uno studente: ma allora bisogna farlo costare di meno, certo la soluzione non è né moltiplicare le nuove sedi né abolirle. Al di là delle spese o degli scandali o della sostenibilità economica della proliferazione delle sedi (spesso avviate con il contributo dei Comuni che adesso però tagliano per mancanza di fondi), c’è una questione più generale: a una gioventù immobile non corrisponderà, per forza di cose, un paese immobile? E se la mobilità è bassa all’interno dei confini, non va certo meglio la mobilità internazionale: ovviamente in uscita, perché le entrate si riducono, il nostro sistema non attrae, e non è solo colpa della lingua. E ancora, continuando a farci del male: quanti sono gli stage post-laurea attivati dagli atenei italiani? In media, 3 ogni 100 laureati. Ma la media è data dalle private che ne fanno 9 su 100, e dalle statali che ne fanno solo 2 su 100.
Su questo stato delle cose è piombata la cura Gelmini-Tremonti. Che però da questo stato delle cose prescinde, riducendo i fondi per il finanziamento ordinario a tutte gli atenei e bloccando le spese di assunzione del personale (che potranno avvenire solo nella misura del 50% delle cessazioni): mentre non incide su alcuno dei meccanismi malati che hanno portato a questo. Non è che togliendo gli alimenti a un malato grave lo stai curando. In termini più analitici, lo dice anche il Rapporto del Cnvsu, valutando l’impatto dell’azione del governo sulla sostenibilità demografica e finanziaria del sistema universitario. Ecco i suoi numeri: nell’ipotesi in cui il turnover coincida con le sole cessazioni per limiti d’età (cioè che nessuno se ne vada per altri motivi), la spesa per gli assegni fissi per il personale salirebbe dall’attuale 85% del Ffo all’86% l’anno prossimo, al 95% nel 2010 e al 107% nel 2011. Vale a dire: “si assisterebbe a un incremento dell’incidenza del costo del personale tale da mettere a rischio la possibilità di mantenere a livelli accettabili altre voci di uscita, in particolare quelle di investimento” (pag. 136). Mentre il corpo docente delle università italiane non si svecchierebbe affatto, anzi “si otterrebbe verosimilmente un risultato molto diverso dall’obiettivo dichiarato di incrementare significativamente il numero dei ricercatori ‘allargando’ la base della piramide” (pag. 133). L’avrà letto, il ministro, il Rapporto che ha presentato?
iComitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, Nono Rapporto sullo Stato del Sistema Universitario (dicembre 2008, bozza) (la versione in pdf sarà in rete a giorni)
iiLa classifica degli atenei con il maggior numero di laureati “precoci” vede al primo posto tra le università statali l’università di Chieti e Pescara, che, grazie al dinamismo del suo rettore nel siglare convenzioni con le categorie, vanta 3.046 laureati precoci, ossia il 53,3% del totale. Seguono Siena, con il 47,2%, e Palermo (27,9%). Come si vede, si tratta di atenei più o meno virtuosi dal punto di vista dei conti (quello di Siena è in dissesto), ma accomunati dalla corsa alle convenzioni. Nella quale brillano le private e le telematiche. Qualche dato: Roma Marconi (50,4% di lauree precoci), Roma San Pio V (72,8%), Enna Kore (79%), Roma Tel.Ma. (91,5%), Casamassima (46%).
iiiUno studio recente ha evidenziato il fatto che, nonostante l’espansione dell’offerta universitaria, e dunque l’allargamento dell’accessibilità dell’istruzione terziaria alle diverse fasce sociali, non è aumentata l’eguaglianza delle opportunità di istruzione: in altre parole, il fatto di avere una gran varietà di corsi e l’ateneo sotto casa può aver fatto crescere le probabilità di iscriversi all’università per le fasce più deboli, ma non quella di laurearsi. Sui laureati, l’incidenza del background familiare resta molto forte (Bratti-Checchi-de Blasio, Does the expansion of higher education increase the equality of educational opportunities? Evidence from Italy”, Labour 22/2008)
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