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Un’Agenzia Nazionale per rilanciare la sanità pubblica

La cattiva gestione della crisi Covid nelle regioni del Nord dovrebbe aver chiarito una volta per tutte l’insensatezza del progetto di autonomia differenziata. Al paese serve invece un’“autonomia perequata”, sostenuta sul fronte socio-sanitario dall’istituzione di un’Agenzia Nazionale in materia di salute.

La pandemia dovrebbe avere archiviato definitivamente e irreversibilmente una delle peggiori aberrazioni della recente politica nostrana: la pretesa di autonomia differenziata da parte delle regioni “forti”. Che, a buon diritto, dovrebbe ora lasciare il posto a un’autonomia perequata.

Non si tratta solo del fatto che quelli che chiedevano di differenziare hanno dato una dimostrazione tangibile di quali sprechi e devastazioni sociali avrebbero procurato, nelle loro stesse regioni, con le risorse in più che egoisticamente reclamavano (si è in parte salvato, un po’ per fortuna e un po’ per furbizia, il presidente del Veneto, avvisato appena in tempo da un esperto di importazione). Il fatto decisivo è che le risorse che ora saranno distribuite, provenienti in gran parte dall’Europa e dalla spesa in deficit, dovranno essere destinate necessariamente alla soluzione dei problemi strutturali più acuti che affliggono il Paese. Tra cui spiccano per importanza l’enorme sperequazione nei redditi delle persone e la diffusione di aree a basso livello sia di produttività che di legalità – intesa come attitudine a rispettare non solo le leggi della repubblica ma l’insieme di regole su cui, per patti espressi e consuetudini, poggia la convivenza civile.

Pertanto, anche se sono problemi che non si possono circoscrivere entro confini geograficamente definiti, è evidente che le risorse non potranno che rispondere a un criterio perequativo, di riequilibrio tra settori e aree della società italiana. E logica vuole che la quota, peraltro marginale, proveniente dalla fiscalità non possa andare nella direzione opposta, come rivendicato dal trio del Nord.

Le incognite sono però pesanti e i dubbi giustificati. Per troppo tempo si è sentito ripetere lo slogan secondo cui “finché il Mezzogiorno non crescerà – economicamente e come standard di qualità della vita nel senso più comprensivo – l‘Italia sarà condannata a non crescere e a non risolvere i suoi problemi strutturali”: almeno dai primi passi dell’Italia repubblicana, quando con la nascita della Cassa per il Mezzogiorno sembrava si fosse imboccata quella strada. Ma così non è stato e quelle speranze sono rimaste regolarmente disattese: mentre ora, con la globalizzazione guidata dal capitale finanziario, dobbiamo fare i conti con rischi sistemici crescenti, ambientali e sociali.

Se è vero l’assunto iniziale, la pandemia dovrebbe averci aperto gli occhi su quei rischi e insegnato che non possiamo cullarci nell’illusione che siano esclusi esiti catastrofici. I segnali di allarme si susseguono, sempre più gravi su entrambi i piani: dal riscaldamento globale allo sfruttamento insostenibile delle risorse naturali, dai focolai di rivolta alle migrazioni di massa. Ma la reazione, l’inversione di rotta, tarda a venire. Non solo, ma forze diffuse, che dispongono di mezzi potenti, contano di trarre profitto da quei rischi per un sommovimento sociale che riporti indietro di secoli le lancette della storia. Per sovrastare questo disegno è richiesta una capacità di reazione lucida ed efficace. E in questa sfida l’Italia è a tutti gli effetti un paese di frontiera.

Per questo è importante mantenere viva l’attenzione su quello che sta accadendo attorno al Covid-19 e sulle criticità che ha messo in evidenza. Per il nostro paese, in particolare, appare centrale il tema dell’autonomia regionale e la conseguente questione istituzionale emersa con tutto il suo peso in questi mesi: di fronte a un virus che non riconosce frontiere, una ripartizione di competenze tra stato e regioni ha poco significato, e una linea di confine tra regioni è pura fantasia. Come non hanno alcuna rilevanza le distinzioni tra organismi appartenenti alla specie umana, basate su colore della pelle, etnia, convinzione religiosa o politica, o su qualunque altro aspetto che non sia la capacità di risposta immunitaria. Eppure, gli esponenti di vertice delle regioni hanno fatto a gara a distinguersi, a coltivare le differenze e, al tempo stesso, a scaricare su altri livelli. In particolare quelli di destra, per una pura esigenza di posizionamento rispetto alla maggioranza di governo, ma la linea della chiusura campanilistica nei confini immaginari delle regioni ha conquistato, come si sa, molti amministratori dell’altro schieramento.

L’elenco delle storture e dei disastri che ne sono derivati sarebbe molto lungo. Basta però la cronaca delle due settimane cruciali per lo sviluppo dell’epidemia, tra il 23 febbraio e l’8 marzo, a comporne un ritratto esauriente, praticamente un repertorio completo. Non è in questione solo il comportamento delle regioni, perché ad un atto censurabile da quel versante ha fatto spesso eco un’incapacità del versante statale, anche quando era in grado di prospettare atti alternativi, di riuscire a imporli. In due settimane sono state espresse da parte delle stesse persone, anche da un giorno all’altro, tesi opposte in base a quella che appariva come la convenienza del momento. Mentre il governo si muoveva entro un quadro istituzionale incerto, con l’unico supporto, peraltro privo di precedenti, della previsione costituzionale dello stato di emergenza ma senza un chiaro potere di coordinamento e di sintesi.

L’espediente (difficile definirlo in altro modo) cui ha fatto ricorso è stato quello di affidarsi al Dipartimento della Protezione Civile, collocato presso la Presidenza del Consiglio (e a un suo organismo creato ad hoc come il comitato di esperti), in quanto struttura che per le sue finalità istituzionali appariva più vicina all’esigenza di enforcement (il termine inglese che meglio esprime etimologicamente il senso del compito di dare attuazione, con imposizioni efficaci, alle norme emanate) in materie che per la Costituzione ricadono nella competenza concorrente come, per l’appunto, la protezione civile. E come la tutela della salute: materia per la quale non c’è però nulla di simile (l’ISS ha altre finalità e una diversa struttura). A sua volta, il Comitato Tecnico-Scientifico sopperisce alla mancanza di un organo di consulenza qualificata e supporta l’operato del governo e dell’apparato statale, ma non ha nessuna autonomia operativa né tanto meno un potere impositivo. Di qui l’espediente ulteriore di fare ricorso, per azioni che richiedono procedure decisionali snelle ed efficaci, a un Commissario Straordinario (all’emergenza Covid). Ma si tratta davvero di eventi straordinari o non piuttosto di casi che non rispondono a dinamiche prevedibili ma si ripetono con frequenza sempre maggiore?

Sia chiaro, il problema non si pone solo in materia di tutela della salute ma si presenta in modo analogo per materie come l’energia, l’ambiente, la ricerca e l’innovazione, l’occupazione, la tutela e la sicurezza sul lavoro: l’elenco non è esaustivo perché si potrebbe estendere più o meno a tutte le materie che l’articolo 117 della Costituzione affida alla legislazione concorrente, oltre che all’insieme dei diritti civili e sociali elencati nella prima parte della Costituzione per i quali lo stesso articolo (lettera m) prevede che lo Stato ne garantisca il godimento a livelli essenziali su tutto il territorio nazionale. Secondo il testo, allo Stato spetta la determinazione di quei livelli e non si specifica un suo potere impositivo per rendere efficace la previsione, ma qualunque costituzionalista spiegherebbe che è da considerare implicito. Peccato che sia rimasto, oltre che implicito, anche virtuale.

A questo punto del ragionamento, una conclusione sembrerebbe obbligata: mettiamo mano di nuovo all’articolo 117 e saniamo la stortura, peccato mortale del centro-sinistra di inizio millennio. Ma i due precedenti del 2005 e del 2016 dovrebbero metterci in guardia: l’esperienza infelice del rapporto Stato-Regioni in questi anni è stata usata come cavallo di Troia per vulnerare l’impianto democratico della Costituzione in aspetti di ben maggiore gravità. A ben vedere, viceversa, le lacune nella formulazione di quell’articolo non impediscono l’emanazione di leggi ordinarie che mettano un po’ di ordine, nel pieno rispetto dello spirito nonché della lettera delle norme fondamentali contenute nella “Parte prima”. Se penso, anche in virtù di passate esperienze personali, al ruolo che potrebbero rivestire, con opportune riforme, Enti e Agenzie come ENEA, ISPRA, ANPAL ovvero (con interventi chirurgici un po’ più radicali) quelle nel campo dei trasporti, delle comunicazioni, del sostegno all’innovazione, ne traggo la conclusione che la Costituzione può essere lasciata in pace e che serve soprattutto chiarezza di intenti e lucidità. A maggior ragione per la tutela della salute.

Mi conforta in questa convinzione il punto di arrivo cui sono giunte, concordemente, una nutrita lista di associazioni che in questo campo sono molto attive e molto ricche di competenze, che hanno sottoscritto a fine giugno la campagna lanciata da Medicina democratica “Dico32. La salute non è una merce, la sanità non è un’azienda”, il cui testo, nonché l’elenco dei sottoscrittori, si può trovare su questo stesso sito: “occorre rinnovare una regia centrale, ma non centralistica, di un servizio sanitario davvero nazionale per diffusione e qualità dei servizi, rimuovendo ogni ipotesi di ‘regionalismo differenziato’, garantendo uniformità di accesso, e di qualità, alle cure in tutta la nazione[1]. E proprio Sbilanciamoci.info era andata oltre qualche settimana prima ponendo esplicitamente il tema di un “sistema economico della salute” che “dovrebbe essere guidato da un’Agenzia nazionale che coordini strategie e investimenti, promuova la ricerca e lo sviluppo di nuove competenze produttive e di servizio, organizzi la domanda pubblica, orienti l’azione delle imprese private, facendo di questo sistema un punto di forza dell’economia del paese”.

Ecco, proprio questa ipotesi, la creazione di un’Agenzia Nazionale, potrebbe essere la chiave di volta per dare effettivamente uniformità all’intervento per la tutela della salute sull’insieme del territorio nazionale. Ma anche per varcare i confini nazionali fornendo un referente stabile ed efficace all’Organizzazione Mondiale della Sanità (da rafforzare a sua volta, sconfiggendo l’offensiva distruttiva di Trump, non a caso alfiere del fronte che punta alla catastrofe). Senza dover passare per le quattro letture di una riforma costituzionale, un intervento di questa natura sul piano istituzionale sarebbe un grande passo avanti e un esempio di grande aiuto anche in altri campi.

Non solo non andrebbe lasciato cadere, ma la mia personale opinione è che si debba fare un passo in più mettendo al lavoro, per formulare più in dettaglio la proposta di un’Agenzia, le competenze (numerose e solide) presenti in quelle associazioni e in altri ambiti, anche politico-amministrativi. Un gruppo di lavoro, aperto e in totale trasparenza, composto da persone animate da una comune visione delle basi di una politica di tutela della salute – attenta ai bisogni delle persone prima che alle leggi dell’accumulazione, e ai vincoli etico-sociali prima che a quelli del mercato – potrebbe così arrivare, tempestivamente, a portare il suo prodotto all’interno del percorso legislativo. Sarebbe anche un modo per dare voce a quella parte attiva della società civile che, nello specifico ambito socio-sanitario, ha profuso un grande impegno nelle difficoltà di questa fase e che ora può dare un contributo rilevante per uscire dalla crisi, contrastando i rischi sistemici che ci sovrastano e sbarrando il passo a chi vuol farne occasione di ulteriore sfruttamento delle persone e della natura che ci circonda.


Note

[1] Già a marzo, nella fase più acuta della pandemia, il Forum per il Diritto alla Salute e Sbilanciamoci! in una Lettera aperta al Governo e al Parlamento ponevano tra gli obiettivi centrali “il potenziamento strutturale del Servizio Sanitario Nazionale”, attraverso un incremento del Fondo Sanitario Nazionale di almeno 40 miliardi nei prossimi 4 anni e “un regionalismo basato sulla leale collaborazione tra Stato, Regioni e Comuni, restituendo ad ognuno il ruolo previsto dall’art. 114 della Costituzione, attuato tramite Patti per la Salute quale strumento di programmazione nazionale, senza modifiche della Costituzione vigente”.


* Giovanni Principe, già Direttore Generale ISFOL. Sono in debito verso Rita Castellani di un’attenta rilettura e di preziosi consigli per migliorare il testo, dei quali volentieri le do atto e la ringrazio.