Una politica alternativa all’esistente dovrebbe mettere al centro la protezione dei redditi da lavoro e il sostegno delle fasce sociali che ne sono escluse, attraverso forme di reddito
Nel manifesto Airaudo-Marcon (www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130720/manip2pg/01/manip2pz/343389/manip2r1/airaudo/) sulle “quattro cose da fare” si riconosce l’urgenza di definire una politica economica in grado di bloccare l’avvitamento di una crisi alimentata dalla politica di austerità che, imposta dai poteri europei, non trova adeguate misure di contrasto nel governo delle larghe intese. Il Governo Letta, in continuità con il percorso segnato dal governo Monti, non sembra disporre di una strategia di politica economica – e il “decreto del Fare” non sembra avere tale caratura – che non si discosti dal mero proseguimento di quelle riforme strutturali che, prospettando ulteriori riduzione dei diritti, delle libertà e delle condizioni di vita dei lavoratori, sono, come denunciano Airaudo e Marcon, una strada di corto respiro che non offre nulla al paese.
Come ben testimoniano i viaggi all’estero del premier Letta, la linea di politica economica del governo riflette la sostanziale adesione alle prescrizioni tedesche e alla benevolenza dei mercati finanziari anglosassoni. Essa rispecchia l’obiettivo di garantirci condizioni di stabilità finanziaria all’interno delle attuali relazioni imposte dalla moneta unica; ciò nonostante il fatto che, con il prolungarsi della crisi, stare o non stare nell’euro appare un nodo “politico” sempre più intricato per l’accentuarsi di una crisi sociale rafforzata dal mancato sbocco di un “governo di cambiamento” che avrebbe potuto provare a porre con maggiore forza a livello europeo la necessità di una diversa politica economica.
Di fronte a un orientamento che, in larghi settori sia a sinistra che a destra, considera necessaria l’uscita dall’euro, non mancano posizioni più caute che, pur nella consapevolezza della situazione rischiosa, propongono di valutare l’appartenenza o meno all’eurozona non solo dal punto di vista economico, ma all’interno di una visione di più lungo periodo che miri a un’Europa più civile e democratica. Tuttavia, in un contesto di politica di austerità, delle tre alternative astrattamente disponibili (una vera unione politica; una Trasferunion; la flessibilità dei cambi) appare plausibile solo la terza (la flessibilità dei cambi) nel caso sulle prime due poco possano e vogliano fare i paesi in difficoltà per persuadere Berlino ad accettare quanto finora non ha voluto. Acconsentire a un ritorno alle valute nazionali significa pertanto ritenere tramontata la convinzione che una valuta comune sia uno strumento adeguato per un maggior controllo democratico delle politiche europee.
Qualsiasi politica economica il cui orizzonte non si fermi al prossimo autunno, deve aver presente quale scenario si prospetta in tempi più lunghi (per lo meno nei dodici mesi che ci separano dalle elezioni europee). A questo riguardo, si può ritenere che il prossimo futuro si caratterizzerà, da un lato, dall’assenza di una volontà “europea” ad allentare la pressione di un’austerità che accentua le divergenze economiche e sociali tra e all’interno dei paesi-membri e, dall’altro, dalla persistenza dei governi nazionali a non voler/poter abbandonare l’euro. A questo esito spinge l’esistenza di interessi “superiori” che, attraverso la moneta unica, mirano a indurre comportamenti “coerenti” nei diversi paesi; si tratta di una prospettiva che non può escludere che l’esasperarsi delle difficoltà economiche e delle tensioni sociali derivanti dall’appartenenza alla moneta unica possano generare situazioni che si traducano nella sua dissoluzione traumatica.
Non è qui il caso di approfondire le cause, i processi e la natura delle cause della presente situazione non solo perché su questi aspetti vi è un’ampia e nota letteratura, ma soprattutto perché la questione rilevante posta dal manifesto di Airaudo e Marcon riguarda la linea di politica economica da privilegiare nell’attuale specifico scenario; ovvero quali obiettivi e quali strumenti è necessario predisporre in un contesto di medio periodo socialmente deflattivo e soggetto a un possibile shock istituzionale di espulsione dall’eurozona. In una tale situazione, l’obiettivo dev’essere quello di contrastare il deperimento delle condizioni sociali che, è noto, sta assumendo la forma di una persistente disoccupazione, di una consolidata precarizzazione dei rapporti di lavoro, di un ridimensionamento dei bisogni individuali e sociali. Nella voluta assenza dell’Europa a difesa di queste dimensioni della vita civile, va quindi posta con decisione la priorità di interventi che contrastino le tendenza regressive in atto, soprattutto di fronte a un quadro governativo che su questo tema si dimostra del tutto insufficiente.
Per contrastare l’incontrollata pressione deflazionistica sul salario (sia individuale che sociale) il cambiamento di politica deve prevedere interventi a diversi livelli: promuovere l’occupazione (un possibile richiamo è alla proposte di “piani del lavoro”, quale quello della Cgil); proteggere la sicurezza del reddito da lavoro (con il rafforzamento del sistema di ammortizzatori sociali); sostenere le fasce sociali strutturalmente escluse dall’attività produttiva (anche attraverso forme più universalistiche di reddito garantito). In questa prospettiva vanno collocati anche gli interventi che, attraverso forme generalizzate di redistribuzione delle ore lavorate, permettono l’ampliamento del numero degli occupati e il contenimento delle situazioni di maggiore precarietà; a questo fine vanno orientati iniziative di opportune revisioni fiscali a favore del lavoro e di modifica delle forme contrattuali che sono proliferate con l’attuale ordinamento del mercato del lavoro. In sostanza, occorre riportare la “politica dei redditi” e la “politica del lavoro” (o meglio dei “lavori”, inclusi quelli “utili”) al centro dell’azione di governo quali guida principe per un processo che ponga l’equilibrio sociale come condizione del rilancio produttivo; una scelta che impone un chiarimento politico verso quale società si intende procedere e attraverso quali processi realizzarla.
La prospettiva di provvedere un’organica struttura di salari minimi e di garanzie minime di reddito sembra essere l’unica che possa impedire che il contenuto recessivo delle politiche europee determini un deterioramento irreparabile del capitale umano e sociale nazionale e, nel più lungo periodo, delle condizioni di vita di ampie fasce della popolazione. Sebbene, per lo scenario adottato, il riferimento riguarda essenzialmente la politica interna, la proposta politica ha una valenza più ampia poiché la rivendicazione di una norma salariale – e di una connessa norma di welfare di protezione sociale – dovrebbe essere un elemento centrale del modello di riferimento europeo. Non ci si può però nascondere che è una linea politica che si pone in netta contrapposizione con quella attuale europea, e dei governi che la condividono, dove l’accettata subordinazione delle condizioni di uguaglianza, sicurezza e solidarietà sociale al mero rafforzamento produttivo denuncia il rovesciamento dello strumento, lo sviluppo produttivo, in obiettivo prevalente sulla stabilità sociale e sull’equilibrio civile.
Proporre la centralità della politica dei redditi e della politica del lavoro non significa trascurare le altre dimensioni della politica economica e, in particolare, quella industriale e quella finanziaria; significa solo riconoscere che esse vanno disegnate in vista degli obiettivi occupazionali. Vanno pertanto sostenuti interventi per il miglioramento delle condizioni infrastrutturali, per la formazione delle capacità tecniche e professionali, per l’incentivazione della ricerca, per la promozione, in un contesto compatibile con la sostenibilità ambientale, della competitività del lavoro nazionale nei confronti del core industriale dell’Europa. Vanno anche favorite tutte le iniziative che rafforzino le nostre difese dalle pressioni della finanza estera, sia che siano predisposte a livello nazionale che a livello dell’Unione, sempreché, e solo se, tali iniziative risultino coerenti con una difesa dei redditi e del lavoro (allentamento del fiscal compact; regolamentazione della concorrenza fiscale; tassazione sulle transazioni finanziarie; rafforzamento delle istituzioni comunitarie funzionali alla mutualizzazione dei debiti pubblici e ai salvataggi bancari; così come altre iniziative di analogo segno).
Se il cambiamento di politica qui auspicato va visto essenzialmente come linea di difesa di medio periodo nei confronti di un processo deflattivo innestato dalle politiche di austerità, esso non è meno importante qualora eventi inattesi determinino una crisi dell’eurozona e il suo improvviso sfaldamento. Non è difficile comprendere come la disponibilità di strumenti di politica dei redditi e del lavoro risulterebbero in questo caso di importanza capitale per governare situazioni di particolare gravità evitando di delegarne la soluzione alle forze politiche e sociali maggiormente dotate. Il controllo delle spinte inflazionistiche connesse al riaggiustamento dei redditi e dei prezzi conseguente all’introduzione di un cambio flessibile, il controllo dei movimenti di capitale con l’estero in situazioni di incertezza finanziaria, la ridefinizione della spesa pubblica per favorire un riaggiustamento produttivo in condizioni di sostenibilità sociale sono strumenti strategici di una ristrutturazione monetaria e valutaria che non deve tradursi in una pesante deflazione nominale del lavoro. Il ricorso a tali modalità di intervento possano generare tensioni a livello europeo in quanto contrastanti con l’esistente quadro istituzionale e i relativi orientamenti di politica economica; esso richiede pertanto una capacità politica capace di evitare sia la passiva subordinazione ai dettati europei, sia inutili tensioni con i nostri partner anche al fine di costruirsi sufficienti presidi che, in caso di inopinati eventi, non facciano mancare l’“ombrello” europeo a copertura delle pressioni finanziarie.
Di fronte a un orientamento europeo che ripropone continuamente vincoli stringenti che penalizzano la sostenibilità sociale del paese, la partecipazione all’eurozona non può essere una scelta incondizionata: non è infatti possibile rimanere inerti per cui è necessario e doveroso proporre testardamente una politica economica che difenda il lavoro. Fanno bene Airaudo e Marcon ad aprire una riflessione e una discussione per articolare “un pensiero e una politica alternativa all’esistente” da sottoporre a coloro che detengono il potere di decidere (partiti di governo e Governo stesso) quale banco di prova su come questi intendano governare la trasformazione della società in atto; su come intervenire sull’attuale politica europea; su quali iniziative politiche intendano assumere nei confronti della “questione euro” che non sia la pura accettazione passiva della visione di Bruxelles.
In uno scenario di pesante disattenzione nei confronti delle difficoltà che presenta l’attuale scenario si pone drammaticamente la questione della qualità delle autorità di politica economica nel garantire il quadro democratico stesso. Sulla difesa delle condizioni di vita popolari, non solo dei lavoratori, le forze politiche vanno chiamate a fornire la garanzia, dopo un decennio di latitanza della politica sociale, di essere in grado di evitare una “deriva greca” (anche per i segnali di scarsa solidarietà intereuropea che questa esperienza ha denunciato) e quindi di potersi e volersi attrezzare per affrontare non solo i processi deflattivi in atto ma anche i costi del riaggiustamento conseguente all’eventuale, ancorché indesiderata, dissoluzione della moneta unica.