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Un Trattato “illegittimo”? Di certo infedele

Il giurista Giuseppe Guarino denuncia i vizi di diritto del Fiscal compact. La rottura giuridica segue l’evoluzione di una politica economica che ha invertito i suoi obiettivi, dal rapporto Delors a oggi

“I regolamenti 1466 e 1467/97 [con i quali nel 1999 si è introdotto il vincolo del bilancio in contrasto con i parametri di Maastricht], applicati ininterrottamente per tredici anni sino al 6.12.2011, sono viziati da “incompetenza assoluta” … perché dispongono in testuale contrasto con i Trattati AUE e TUE, che avrebbero potuto essere modificati solo da altri Trattati, non sicuramente con regolamenti espressione di una fonte giuridica di rango inferiore.” E’ quanto scrive su Milano Finanza il giurista Giuseppe Guarino. Che aggiunge: i regolamenti che ne sono seguiti, incluso il recente Fiscal Compact, sarebbero caratterizzati da un vizio “da qualificarsi non come semplice “illegittimità”, bensì come “assoluta carenza di potere”. (Guarino, su MilanoFinanza)

L’argomentazione di Guarino è, per un non-giurista quale io sono, lucida e convincente non solo per ragioni di diritto, che lascio al dibattito tra i cultori della materia, ma perché implica una valutazione sull’evolversi dell’orientamento di politica economica che si è avuta a livello europeo dal Rapporto Delors al Fiscal Compact.

Il Rapporto Delors si proponeva attraverso una maggiore integrazione continentale di costruire un’Europa che potesse essere competitiva a livello globale sul terreno industriale con il Giappone (e i paesi asiatici) e sul terreno finanziario con gli Stati Uniti. Un’Unione Europea la cui crescita, competitività, occupazione le garantisse di essere “faithful to the ideals which have come to characterize and represent Europe, of finding a new synthesis of the aims pursued by society (work as a factor of social integration, equality of opportunity) and the requirements of the economy (competitiveness and job creation)” (Rapporto Delors, Preamble, p.3).

L’obiettivo di politica (economica) è preciso: individuare le forme che permettano di garantire, in un contesto globale di più complessa competitività, i caratteri sociali dell’Europa. È questa l’ispirazione vitale della Commissione europea che è andata persa nelle visioni dei suoi successivi Trattati. Questi, contraddicendo la visione originaria del’Unione, non possono che tradursi nelle forzature illegittime che Guarino individua così acutamente.

L’inversione degli obiettivi è manifesto nella “politica economica del Fiscal Compact” dove le esigenze dell’economia e della finanza prevalgono sui bisogni della società. Ciò è evidente nei fatti – l’imposizione di un processo di risanamento finanziario attraverso un’austerità che innesta un processo recessivo cumulativo di grande sofferenza sociale – ma nei meccanismi oggettivi che introduce che esplicitano, cosa più preoccupante in prospettiva, come l’inversione degli obiettivi sia parte integrante della “visione” della Commissione.

In termini estremamente concisi, l’austerità propugnata dalla Troika si basa sulla convinzione che un taglio generalizzato ai deficit pubblici dovrebbe tradursi in un aumento delle esportazioni e una diminuzione delle importazioni e permettere così la ripresa economica del paese in crisi. Nessuno nega che ciò si possa avvenire se la riduzione del salario reale interno opera efficacemente come meccanismo regolatore; la perdita di reddito (diretto e indiretto) del lavoratore è considerato un male necessario per un’economia gestita malamente, e che l’austerità risanando la finanza pubblica garantirebbe la ripresa economica. L’idea che politiche fiscali restrittive possano avere effetti produttivi espansivi si poggiano su alcune esperienze positive (Danimarca e Irlanda degli anni ottanta) che, però si sono realizzate ia per le particolari condizioni favorevoli che ha goduto la politica economica (possibilità di svalutare), sia per il contesto (espansivo) internazionale, entrambe lungi dall’essere presenti nella situazione corrente.

L’imposizione di una politica di austerità nell’attuale contesto internazionale non può avere invece, come da tempo si sottolinea, che un effetto recessivo con aumento della disoccupazione che con la compressione salariale e i tagli alla spesa pubblica non può che determinare pesanti contrazioni della domanda interna e della produzione. Per svolgere la sua funzione di “regolazione” macroeconomica, il salario reale dovrebbe registrare pesanti contrazioni per garantire il necessario livello di competitività per rilanciare la produzione interna e il necessario livello di profitti per rilanciare gli investimenti (non-finanziari) interni.

Di ciò sembra che stia prendendo consapevolezza la stessa Troika quando nei suoi documenti prospetta scenari in cui sposta l’orizzonte del superamento della crisi a date sempre più lontane, ponendo il problema del tempo necessario perché la strategia del’austerità raggiunga i suoi obiettivi. A questo riguardo non è La risposta rassicurante la previsione della Merkel che occorrono almeno cinque anni, tanto più che omette qualsiasi riflessione sul deterioramento delle condizioni sociali che ne deriverebbero da un tale e così protratto processo di riaggiustamento.

La politica economica del Trattato non persegue solo obiettivi opposti a quelli che avevano motivato l’unificazione europea, ma presenta caratteri interni di illogicità rispetto all’obiettivo di ripristinare in tempi brevi una crescita socialmente sostenibile. (si veda la critica puntuale del Trattato nell’e.book Europa da slegare). Anche di ciò sembra siano perfettamente consapevoli gli stessi estensori del Trattato quando, rilevando l’inaccettabilità per la società di quelle “leggi economiche naturali” che la dovrebbero guidare, ne impongono – imbellettandole come “regole d’oro” –l’innaturale loro trasformazione in “leggi giuridiche costituzionali” in modo di escludere, attraverso una politica economica fatta da regole fisse, interventi discrezionali volti a contrarne gli inevitabili squilibri sociali prodotti dall’austerità.

Se è vero che tra capitalismo e democrazia vi è incompatibilità strutturale – alla necessaria creazione di disuguaglianze del primo ci contrappone il perseguimento di uguali diritti e opportunità della seconda, al privilegiare gli interessi economici del primo si contrappone il sostegno dei bisogni scoiali della seconda –appare manifesto da questa vicenda che la politica europea, nella sua attività di mediazione tra questi obiettivi conflittuali, ha scelto di privilegiare il dominio dell’economia sulla società secondo una visione che viene definita come BB (Berlin-Bruxelles) Consensus.

La politica di austerità privilegia, sia nella versione neoliberista e in quella ordoliberista, le “ragioni” dell’economia sia a breve termine, determinando con il contesto recessivo le condizioni di vita correnti, sia a più lungo termine, modificando con le riforme di struttura l’assetto istituzionale della società. Ma è quest’ultima dimensione a rappresentare l’effetto cruciale; non sfugge a nessuno che le riforme dei nostri sistemi pensionistico, sanitario e dell’istruzione che, messi in sofferenza per carenze del passato e per interventi odierni, costituiscono un ridimensionamento dell’universalità di quelli che erano considerati punti caratterizzanti della civiltà europea. Ma ancor più appare evidente il ruolo cruciale che ha per gli equilibri sociali l’elemento di un pavimento alla caduta del salario (diretto e indiretto) che impedisca, nella sua funzione regolatrice macroeconomica, un’indefinita contrazione. Si comprende allora come riforme del mercato del lavoro con le quali si facilitano i licenziamenti senza giusta causa e con le quali si permette che la contrattazione aziendale possa derogare dalle condizioni contrattuali nazionali, eliminando qualsiasi pavimento alla caduta del salario, iniettano incertezza e instabilità non solo sociale, ma anche economica.

Una politica economica condotta da una classe dirigente europea (qualcuno potrebbe sostenere, globale), situata a Bruxelles, Francoforte, Berlino, Roma e altrove, che opera trasversalmente alle nazioni ha un’idea precisa di quale Europa costruire. Il suo modello non sembra avere alcun riferimento con quello che animava, pur nelle difficoltà del momento, la proposta di Delors. Una visione di una classe dirigente (politica, imprenditoriale, amministrativa pubblica) alla quale si contrappongono al più, e con difficoltà, alternative esclusivamente nazionali.

È rivelatore a questo riguardo la scelta che per i paesi europei (e in particolare ora per quelli mediterranei) prima della crescita deve venire il risanamento, ovvero l’attuazione delle “riforme” cui abbiamo appena accennato; sono esse che dovrebbero garantire le condizioni di lavoro, costo e disciplina, sulle quali poter fondare la “nuova” crescita. E sono queste le riforme di struttura che Mario Monti – in sostanziale consonanza con la Merkel e gli altri dirigenti conservatori europei – ha l’”ambizione” di realizzare.

Una politica di austerità che contraddice nel breve e nel lungo termine le prospettive di benessere sociale e che mette a repentaglio non solo le forme ma la sostanza stessa della democrazia europea, non può essere considerata espressione della volontà generale dei cittadini europei, ma della volontà neoconservatrice di una tecnocrazia che, come Guarino indica, ha forzato, utilizzando gli strumenti tecnici a sua disposizione, una reinterpretazione degli obiettivi e delle aspirazioni che erano alla base del progetto di unificazione europea.

La domanda inquietante che da tempo viene posta e che questa vicenda ripropone è: “quale società e quale democrazia ha in mente questa tecnocrazia? Ovvero, quanto europeista è la nostra classe dirigente europea?”