La crisi finanziaria letta sotto l’ottica del rischio: quello delle banche, che nessuno ha saputo governare, e quello degli individui, vittime designate
Uno dei punti di partenza più importanti per analizzare in maniera adeguata l’attuale crisi, per altro verso un fenomeno molto complesso, riguarda l’angolo visuale del rischio.
Si è detto in questi mesi, in generale e da più parti, che i mercati e le istituzioni finanziarie avevano sottovalutato il rischio presente nelle loro operazioni e lo avevano “prezzato” in maniera inadeguata, caricandosene a piene mani, senza particolari preoccupazioni, nella speranza comunque di ritorni economici molto rilevanti, o che invece si erano illusi di averlo scaricato su altri soggetti. E questo tipo di affermazioni appare in effetti abbastanza corretta. Tutto era andato poi andato peraltro a finire in maniera molto diversa da come sperato.
Esaminiamo, comunque, alcuni aspetti particolari, ma rilevanti, della questione, sulla quale forse non si è riflettuto abbastanza e che rendono il quadro complessivo sotto un’ottica almeno in parte differente da quella descritta dai politici, dalle istituzioni finanziarie direttamente interessate e dai media.
Intanto, nonostante i modelli matematici sofisticati e gli analisti super esperti che sono stati utilizzati negli ultimi anni, la finanza non ha assolutamente previsto l’arrivo della crisi (Lordon, 2008). L’evento che aveva soltanto una probabilità su di un milione, o dieci milioni, di verificarsi e che quindi è stato trascurato nelle analisi come irrilevante, è invece arrivato e questa non è comunque la prima volta che accade, dato che quella in corso non è certo la prima crisi degli ultimi decenni.
Il fatto è che, tra l’altro, l’ipotesi di controllabilità ex-ante dei rischi finanziari risulta alla fine insostenibile; i modelli correnti di analisi, che possono essere adeguati in periodi normali, sono invece del tutto inutilizzabili quando ci si avvicina a dei punti critici del ciclo. Lasciare quindi le banche esporsi al rischio, supponendo che le conseguenze di tale esposizione possano essere correttamente previste e quindi governate attraverso opportuni strumenti finanziari, appare alla fine un errore grossolano.
Questa incapacità non deriva da un’imperfezione dei mercati che si potrà magari coprire in futuro con modelli ancora più sofisticati o analisti ancora più preparati, come anche sembrano suggerire esperti finanziari e banchieri internazionali, ma essa trae origine da un’impossibilità sostanziale, che è legata all’indeterminazione profonda dei movimenti collettivi sui mercati durante una fase critica e all’incertezza radicale –cioè non quantificabile- che ne risulta (Lordon, 2008).
Le conseguenze di quanto sinora mostrato sono almeno tre.
La prima riguarda il settore bancario ed è quella che tali istituzioni, non potendo governare il rischio, devono pensare invece a come ridurlo fortemente. Il che significa, in altre parole, che le banche devono fare meno operazioni rischiose, o coprirle con un livello di capitale più elevato, o molto più elevato, di quello attuale, mentre le autorità di vigilanza devono essere molto più attente a controllare il loro comportamento. Questa appare, peraltro, una considerazione che può portare, in maniera più radicale, alla decisione politica di socializzazione del sistema bancario di base, come auspicato a suo tempo da Minsky, per permettere un ordinato sviluppo dell’economia reale.
Un’altra considerazione molto importante riguarda necessariamente la teoria finanziaria. Negli ultimi decenni sono stati assegnati molti premi Nobel per l’economia, tra l’altro da giurie fortemente imbevute dell’ideologia neoliberista, a degli studiosi che sono all’origine delle valutazioni e delle formule che hanno portato i mercati finanziari a governare i rischi nel modo in cui lo hanno fatto nell’ultimo periodo. L’assunzione di base di tali teorie era proprio quella che i rischi potevano essere previsti e governati tranquillamente.
Ricordiamo su questo fronte, tra gli altri, Markowitz con la sua teoria del portafoglio –qualcuno, negli ultimi giorni, lo ha accusato in pubblico, forse esagerando, di essere un ciarlatano-, Sharpe, allievo del primo, con il suo modello CAPM per la valutazione del valore di un titolo considerando il suo livello di rischio, Scholes, Black e Merton, con la loro formula, a suo tempo considerata geniale, per valutare il corretto prezzo di alcune categorie di derivati –sono forse quelli che hanno fatto i danni maggiori-, o ancora il prof. Fama, con la sua risibile ipotesi dei mercati efficienti –quest’ultimo studioso non ha peraltro ancora vinto il Nobel e ormai è difficile che lo ottenga. Va in effetti segnalato che, miracolosamente e misteriosamente, la composizione politica delle giurie sembra essere molto cambiata nell’ultimo periodo – si sono forse accorti che seguivano una strada sbagliata?- , tanto che il Nobel per l’economia è stato assegnato di recente anche a studiosi come Stiglitz e Krugman, di tutt’altro orientamento ideologico e che di tecnica finanziaria si sono per la verità occupati relativamente poco.
Bisogna anche ricordare che lo stesso Merton, insieme a qualche altro premio Nobel, è stato a suo tempo anche implicato, nel 1998, nel crollo della società LTCM, vicenda che ha dato allora origine ad un’altra crisi dei mercati finanziari, meno grave comunque di quella attuale.
Ora queste teorie, che sono anche alla base dell’insegnamento della finanza a livello “micro” e “macro” nelle università di tutto il mondo – a proposito, come si farà ora? Si butteranno all’aria le vecchie idee e i vecchi libri di testo? E con che cosa verranno sostituiti? E i mercati continueranno a prendere le loro decisioni sulla base delle già citate teorie?-, sono sotto accusa e la scienza finanziaria è rimasta ormai, per una buona parte, sostanzialmente senza fondamenta. Il re è nudo.
L’ultima questione, collegata al tema del rischio, riguarda invece una rivoluzione silenziosa di cui nessuno parla e che tocca più da vicino le famiglie ed i risparmiatori, che hanno visto, in conseguenza di tali mutamenti, la loro vita sostanzialmente cambiata, almeno nei paesi anglosassoni.
Trenta anni fa un tipico consumatore statunitense aveva un mutuo immobiliare a tasso fisso, una tranquilla polizza sulla vita, un normale conto in banca e un piano pensionistico a prestazioni definite pagato dall’impresa in cui lavorava. Oggi l’innovazione finanziaria ha cambiato tutto: lo stesso consumatore avrà magari un mutuo a tasso variabile con incorporata un’opzione, un piano pensionistico in gran parte finanziato da lui stesso e comunque con gli eventuali benefici legati ai rendimenti dei titoli in cui le sue risorse sono investite, senza più prestazioni definite in anticipo, una linea di credito garantita dal valore della sua casa – con tutte le conseguenze del caso quando i prezzi delle attività immobiliari cominciano a scendere- e, nel migliore dei casi, un conto di risparmio per le spese sanitarie (Laise, 2008). Molte delle clausole incorporate poi in tali prodotti sono spesso molto complesse ed inintellegibili per dei normali esseri umani.
In sostanza, le banche, le assicurazioni e i datori di lavoro hanno accresciuto i loro profitti e contemporaneamente ridotto i loro rischi, scaricandoli sugli stessi consumatori: un vero capolavoro di ingegno. Gli stessi consumatori devono oggi, in particolare, tenersi sulle spalle i rischi relativi alle fluttuazioni nei tassi di interesse, all’aumento rilevantissimo dei costi delle spese mediche, alle oscillazioni dei valori di Borsa e di quelli delle case, alla eventualità, spesso a questo punto tragica, infine, di vivere più a lungo di quanto previsto dagli schemi pensionistici.
E tutta l’operazione è tranquillamente passata nell’opinione pubblica e tra i diretti interessati, senza grandi proteste, con la giustificazione che, in tale modo, i consumatori avrebbero ottenuto di prendere direttamente in mano il controllo di una gamma di rischi in forte crescita.
Nel frattempo, i nuovi prodotti hanno creato dal nulla una montagna di commissioni per miliardi di dollari a favore di Wall Street ed hanno contribuito a spingere verso l’alto il suo sviluppo (Laise, 2008).
Tutto questo fa parte poi di quella vera e propria lotta di classe dei ricchi contro le classi medie e i poveri (Mason, 2008), che è stata una delle caratteristiche principali del panorama economico, sociale, politico, di almeno gli ultimi venti anni in giro per il mondo.
Per fortuna, almeno su questo fronte, il consumatore dell’Europa continentale e quello italiano in particolare, è stato, almeno sino ad oggi, meno colpito. Ma si può sempre rimediare. Avanti con i fondi pensione ed i derivati!
Testi citati nell’articolo
Laise E., Some consumers say Wall Street failed them, The Wall Street Journal, 30 novembre 2008
Lordon F., Jusqu’à quand? Pour en finir avec les crises financières, Raisons d’agir editions, Parigi, 2008