Più che di un reddito di cittadinanza si dovrebbe parlare di un reddito di base incondizionato: un salario sociale legato ad un contributo produttivo oggi non riconosciuto
Sia sul sito di Sbilanciamoci che su il manifesto sono apparsi alcuni articoli critici in materia di reddito di cittadinanza (vedi, tra gli altri, gli articoli di Pennacchi, Lavoro, e non reddito, di cittadinanza, e Lunghini, Reddito sì, ma da lavoro). In questa sede, vorremmo chiarire alcuni principi di fondo per meglio far comprendere che cosa, a nostro avviso, si debba intendere quando in modo assai confuso e ambiguo si parla di “reddito di cittadinanza”. Noi preferiamo chiamarlo reddito di base incondizionato (Rbi) ed è su questa concezione che vorremmo si sviluppasse un serio dibattito (con le eventuali critiche). Le note che seguono sono una parte di una più lunga riflessione che apparirà sul n. 5 dei Quaderni di San Precario.
La proposta di un Rbi di un livello sostanziale e indipendente dall’impiego, elaborata nel quadro della tesi del capitalismo cognitivo, poggia su due pilastri fondamentali.
Il primo pilastro riguarda il ruolo di un Rbi in relazione alla condizione della forza lavoro in un’economia capitalista. La disoccupazione e la precarietà sono qui intese come il risultato della posizione subalterna del salariato (diretto e eterodiretto) all’interno di un’economia monetaria di produzione: si tratta della costrizione monetaria che fa del lavoro salariato la condizione d’accesso alla moneta, cioè a un reddito dipendente dalle anticipazioni dei capitalisti concernenti il volume della produzione e quindi del lavoro impiegabile con profitto. In questa prospettiva, il ruolo del Rbi consiste nel rinforzare la libertà effettiva di scelta della forza lavoro incidendo sulle condizioni in virtù delle quali, come sottolineava ironicamente Marx, il “suo proprietario non è solo libero di venderla, ma si trova anche e soprattutto nell’obbligo di farlo”. Inoltre, il carattere incondizionato e individuale del Rbi – in quanto strumento e non fine a e stesso (spesso si fa confusione al riguardo) – aumenterebbe il grado di autonomia rispetto ai dispositivi tradizionali di protezione sociale ancora incentrati sulla famiglia patriarcale e su una figura del lavoro stabile che oggi ha perso la sua centralità storica.
Da questa concezione derivano due corollari essenziali.
In primo luogo, l’importo monetario del Rbi deve essere sufficientemente elevato (almeno la metà se non il 60% del salario mediano – non medio) per permettere di opporsi all’attuale degradazione delle condizioni di lavoro e favorire la mobilità scelta a discapito della mobilità subita sotto la forma di precarietà. In questa prospettiva, il Rbi permetterebbe inoltre un effettiva diminuzione del tempo di lavoro. La garanzia di continuità del reddito permetterebbe infatti a ognuno di gestire i passaggi tra diverse forme di lavoro e di attività riducendo il tempo di lavoro sull’insieme del tempo di vita in modo più efficace che attraverso una riduzione uniforme del tempo di lavoro sulla settimana lavorativa, in un contesto in cui per una parte crescente della forza-lavoro l’orario settimanale di lavoro non è più oggi quantificabile, né misurabile.
In secondo luogo, la proposta di Rbi si iscrive in un progetto più ampio di rafforzamento della logica di demercificazione dell’economia all’origine del sistema di protezione sociale che si propone di completare salvaguardando le garanzie legate alle istituzioni del Welfare (pensioni, sistema sanitario, indennità di disoccupazione, ecc.) e adeguandole alle nuove forme di lavoro, che oggi ne sono escluse (la maggior parte dei precari non riesce ad accedere a nessun ammortizzatore sociale oggi in vigore)
Il secondo pilastro della nostra concezione del Rbi consiste nel considerarlo come un reddito primario, vale a dire un salario sociale legato ad una contribuzione produttiva oggi non remunerata e non riconosciuta.
Infatti, contrariamente agli approcci in termini di fine del lavoro, la crisi attuale della norma fordista dell’impiego è lungi dal significare una crisi del lavoro come fonte principale della produzione di valore e di ricchezza (non mercantile). Al contrario. Il capitalismo cognitivo non è solo un’economia intensiva nell’uso del sapere, ma costituisce al tempo stesso e forse ancor più del capitalismo industriale, un’economia intensiva in lavoro, benché questa dimensione nuova del lavoro sfugga spesso ad una misurazione ufficiale, sia per quanto riguarda il tempo effettivo di lavoro che la tipologia delle attività che non possono essere del tutto assimilate alle forme canoniche del lavoro salariato.
Questa trasformazione trova la sua origine principale nel modo in cui lo sviluppo di un’intellettualità diffusa e la dimensione cognitiva del lavoro hanno condotto, a livello della fabbrica come della società, all’affermazione di un nuovo primato dei saperi vivi, mobilizzati dal lavoro, rispetto ai saperi incorporati nel capitale fisso e nell’organizzazione manageriale delle imprese. Da questo deriva anche la crisi del “regime temporale” che all’epoca fordista opponeva rigidamente il tempo di lavoro diretto, effettuato durante l’orario ufficiale di lavoro, e considerato come il solo tempo produttivo, e gli altri tempi sociali dedicati alla riproduzione della forza lavoro, considerati come improduttivi.
Due tendenze mostrano la portata e la posta in gioco di questa trasformazione.
La prima rinvia alla dinamica che vede la parte del capitale chiamato intangibile (educazione, formazione, salute, R&S) e incorporato essenzialmente negli uomini (il cosìdetto capitale umano) superare la parte del capitale materiale nello stock di capitale e rappresentare ormai il fattore principale della crescita. Ora, questo fatto stilizzato significa che le condizioni della riproduzione e della formazione della forza lavoro sono diventate direttamente produttive e che la fonte della ricchezza delle nazioni si trova sempre più a monte del sistema delle imprese. In secondo luogo, viene evidenziato un altro fatto sistematicamente omesso dagli economisti dell’Ocse: i settori motori del nuovo capitalismo della conoscenza corrispondono sempre più ai servizi collettivi assicurati storicamente dal Welfare-State. Si tratta di attività dove la dimensione cognitiva del lavoro è dominante e si potrebbe sviluppare potenzialmente un modello di sviluppo alternativo fondato sulla produzione dell’uomo attraverso l’uomo e la centralità di servizi universali forniti al di fuori di un logica di mercato. Tutti questi fattori, e gli interessi molto materiali che essi suscitano, permettono di spiegare la pressione straordinaria esercitata dal capitale per privatizzare o in ogni caso sottomettere alla sua razionalità i servizi collettivi del Welfare introducendovi, per esempio, nello spirito del New Public Management, la logica della concorrenza e del risultato quantificato, preludio all’affermazione pura e semplice della logica del valore. La cosiddetta crisi del debito sovrano è stata e resta il pretesto per accelerare queste tendenze. Abbiamo probabilmente qui una delle spiegazioni più logiche dell’irrazionalità macro-economica delle politiche pro-cicliche e dei piani d’austerità richiesti dai mercati finanziari e dalla celebre Troika (Fmi, Ue, Bce).
La seconda evoluzione concerne il passaggio, in numerose attività produttive, da una divisione taylorista ad una divisione cognitiva del lavoro fondata sulla creatività e la capacità d’apprendimento dei lavoratori. In questo contesto, il tempo di lavoro immediato dedicato alla produzione durante l’orario ufficiale di lavoro diventa soltanto una frazione del tempo sociale di produzione. Per la sua stessa natura, il lavoro cognitivo si presenta infatti come la combinazione complessa di un’attività di riflessione, di comunicazione, di scambio relazionale di conoscenza e saperi che si svolge tanto all’interno quanto al di fuori delle imprese e dell’orario contrattuale di lavoro. Di conseguenza, i confini tradizionali tra lavoro e non lavoro, si attenuano, e ciò avviene con una dinamica contraddittoria. Da un lato, il tempo libero non si riduce più alla sola funzione catartica di riproduzione del potenziale energetico della forza lavoro. La riproduzione oggi non avviene più solo all’interno della famiglia, ma assume sempre più connotati sociali. Con riferimento al ruolo femminile, la riproduzione sociale svolge le funzioni di “casalinga del capitale”, come ci ricorda Cristina Morini. Essa, infatti, si articola sempre più su attività di formazione, di autovalorizzazione, di lavoro volontario nelle reti dell’economia sociale e delle comunità di scambio dei saperi che attraversano le differenti attività umane. Queste sono attività nelle quali ogni individuo trasporta il suo sapere da un tempo sociale all’altro, accrescendo il valore d’uso individuale e collettivo della forza lavoro, che – sic rebus stantibus – il capitale è in grado di tradurre poi in valore di scambio e/o valore finanziario.
Dall’altro, per questa stessa ragione si creano un conflitto e una tensione crescenti tra questa tendenza all’autonomia del lavoro e il tentativo del capitale di assoggettare l’insieme dei tempi sociali alla logica eteronoma della valorizzazione del capitale.
Questa tensione contribuisce a spiegare la stessa destabilizzazione dei termini tradizionali dello scambio capitale-lavoro salariato. Nel capitalismo industriale, il salario era la contropartita dell’acquisto da parte del capitale di una frazione di tempo umano ben determinata messa a disposizione dell’impresa. Il capitalista, doveva allora occuparsi delle modalità più efficaci dell’utilizzo di questa frazione di tempo pagato al fine di estrarre dal valore d’uso della forza lavoro la massima quantità di plusvalore. Il taylorismo grazie all’espropriazione dei saperi operai e alla rigida prescrizione dei tempi e delle mansioni fu a suo tempo la soluzione adottata. Nella fabbrica fordista, il tempo effettivo di lavoro, la produttività, il valore e il volume della produzione sembravano perfettamente predeterminati in modo “scientifico”, anche se in realtà la catena di montaggio non avrebbe mai potuto funzionare senza uno scarto importante tra le consegne prescritte e l’attività reale. Il solo vero rischio per il capitale era che questa implicazione paradossale dell’operaio-massa si tramutasse in insorgenza antagonista. Come è avvenuto. Ma tutto cambia allorché il lavoro, diventando sempre più cognitivo, non può più essere prescritto e ridotto a un semplice dispendio di energia effettuato in un tempo determinato. Il vecchio dilemma si ripropone quindi in nuovi termini: non solo la crisi della cosiddetta organizzazione scientifica del lavoro rende nuovamente il capitale dipendente dai saperi dei lavoratori, ma quest’ultimo deve ottenere un’implicazione attiva dell’insieme dei saperi e dei tempi di vita. La “prescrizione della soggettività“, l’obbligo al risultato, la pressione del cliente insieme alla costrizione pura e semplice legata alla precarietà sono le principali vie trovate dal capitale per tentare di rispondere a questo problema per certi aspetti inedito. Le diverse forme di precarizzazione del rapporto salariale sono infatti anche e soprattutto uno strumento per il capitale per imporre e beneficiare gratuitamente di questa subordinazione totale, senza riconoscere e senza pagare il salario corrispondente a questo tempo non integrato e non misurabile nel contratto di lavoro.
Nel capitalismo contemporaneo, cognitivo e finanziarizzato, la precarietà sembra stare al lavoro come, nel capitalismo industriale, la parcellizzazione delle mansioni operaia stava al taylorismo.
La stessa logica spiega perché il processo di dequalificazione della forza lavoro sembra aver ormai ceduto il passo a un massiccio fenomeno di declassamento, dove con questo concetto si designa una svalorizzazione delle condizioni di remunerazione e di impiego rispetto alle qualificazioni (certificate dal diploma) e alle competenze effettivamente messe in opera dal lavoratore nello svolgimento della propria attività lavorativa.
In definitiva, il Rbi si presenta al tempo come un reddito primario per gli individui e un investimento collettivo della società nel sapere, via maggior sfruttamento di quelle economie di apprendimento e di rete, oggi in grado di incrementare la produttività sociale che in Italia viene a mancare. La sua instaurazione permetterebbe, congiuntamente alla riappropriazione democratica dei servizi collettivi del Welfare, la transizione verso un modello di sviluppo fondato sul primato del non mercantile e di forme di cooperazione alternative tanto al pubblico quanto al mercato nei loro principi di organizzazione.