In Italia i cosiddetti worker buyout si stanno diffondendo utilizzando i fondi di mobilità e il Tfr. Ecco perchè le istituzioni pubbliche dovrebbero favorirli
Alcuni effetti sociali della globalizzazione contemporanea, dall’aumento della disoccupazione, della povertà relativa e della disuguaglianza alla riduzione della quota-salari in quasi tutto il mondo, rendono sempre più evidente che l’accumulazione capitalistica non è in grado di servire adeguatamente la causa della felicità umana. Gli effetti di svuotamento di sostanza delle istituzioni deliberative nazionali sotto la pressione della “sovranità dei mercati” dimostrano inoltre che essa non è in grado neanche di assicurare la libertà individuale e la partecipazione dei popoli ai processi decisionali. Un numero crescente di persone si sta convincendo che il capitalismo va superato se si vuole che l’economia stia al servizio dell’uomo e non viceversa.
I disastrosi fallimenti novecenteschi dei tentativi di costruzione del socialismo sembrano aver disarmato i politici e gli economisti, rendendoli incapaci di costruire progetti realistici e convincenti di superamento del capitalismo. Bisogna, allora, ricominciare dai fondamenti per immaginare un tipo di società nuova capace di salvare l’umanità dal disastro. Non che manchino modelli teorici, anzi, ce ne sono fin troppi. Ma su quali debbano essere quei fondamenti non sembra esserci comunanza di vedute.
Tuttavia c’è un suggerimento molto interessante che viene dalla società e in particolare dalle pratiche con cui molti lavoratori reagiscono alla chiusura delle fabbriche. In diversi paesi europei e americani gli operai che perdono il posto di lavoro cercano di appropriarsi delle fabbriche che chiudono per fallimento o delocalizzazione trasformandole in cooperative autogestite.
In Italia questi processi di worker buyout si stanno diffondendo e vengono attuati usando i fondi di mobilità e il TFR e con l’assistenza organizzativa e finanziaria di Legacoop, Coopfond, banche e altre istituzioni finanziarie. Va da sé che le difficoltà sono enormi, e che non tutte queste iniziative hanno successo.
Crediamo che la collettività, per mezzo delle istituzioni pubbliche e delle organizzazioni non governative, debba favorire questi processi, sia con l’offerta di facilitazioni finanziare sia con l’adeguamento legislativo. E pensiamo che gli economisti, i sociologi, i giuristi e i politici debbano dare il loro contributo teorico e pratico.
Queste iniziative dei lavoratori, se messe in condizioni di avere successo e di svilupparsi, preannunciano un processo di superamento del capitalismo e di costruzione di una società e di un’economia più umane. Per restare alla sfera strettamente economica, esse prefigurano un’organizzazione produttiva basata su imprese cooperative autogestite che operano in un mercato ben regolato. Pensiamo che, se in una fase di transizione le imprese autogestite si trovano in competizione con le imprese capitalistiche, alla lunga possano risultare vincenti, se non altro perché sono più efficienti di esse almeno nella gestione delle asimmetrie informative nel processo produttivo; purché le seconde non siano sistematicamente favorite dalle politiche governative, dai mercati finanziari e dalla tolleranza verso le pratiche oligopolistiche.
Un problema che si sta rivelando sempre più grave è creato dal fatto che nel moderno capitalismo globalizzato le grandi imprese multinazionali tendono a costruire potere monopolistico e monopsonistico soprattutto con il controllo dei diritti di proprietà intellettuale, in virtù del quale esercitano potere e sfruttamento anche nei confronti delle piccole-medie imprese su cui delocalizzano la produzione di beni intermedi. Per evitare che le imprese autogestite restino schiacciate da questo tipo di sfruttamento è necessario un forte intervento politico e legislativo volto tra l’altro a favorire gli investimenti pubblici e cooperativi nella ricerca e a contrastare la tendenza alla privatizzazione monopolistica della conoscenza.
Una società in cui si sviluppa un forte settore cooperativo offre molti vantaggi:
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può dare la libertà decisionale ai lavoratori nel processo produttivo, sottraendoli alle angustie del contratto di lavoro subordinato
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può dare autonomia nell’attività lavorativa, rendendo possibile organizzare il processo produttivo in modo che il lavoro fornisca motivazioni intrinseche e consenta l’attivazione di pratiche di autorealizzazione
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può rivitalizzare la democrazia in quanto, da una parte toglie potere al grande capitale, dall’altra educa i lavoratori alla partecipazione mentre li incentiva a esercitare il controllo sulle istituzioni politiche che governano i mercati, la finanza e le politiche sociali e industriali
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può ridurre la disoccupazione, sia perché fa scomparire la disoccupazione per alto costo del lavoro, sia perché, in presenza di contrazioni della domanda, i soci cooperatori possono decidere di ridurre l’orario di lavoro invece che l’occupazione
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può sostenere processi di redistribuzione ugualitaria dei redditi e di eliminazione dello sfruttamento del lavoro
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può contrastare i processi di delocalizzazione, perché il lavoro non si delocalizza, almeno non quanto il capitale
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può portare all’eliminazione del precariato, perché il contratto di associazione è a tempo indeterminato.
Le società umane – crediamo – diventano alla lunga sempre più libere. Si è abolita la schiavitù, si è abolita la servitù della gleba, ma non si è ancora abolito il lavoro salariato. Si è introdotto il diritto di voto inizialmente per i più abbienti e i più istruiti, poi per i maschi, infine per le donne. Occorre ora dare il voto, nelle imprese, a tutti coloro che partecipano all’attività produttiva.
http://sviluppofelice.wordpress.com/2014/12/04/manifesto-per-lautogestione/Per aderire, scrivere a bruiossa@unina.itoppure a screpanti@unisi.it