Lavoro cercasi/2 L’Europa non riesce a invertire la curva della disoccupazione e prova a fare fronte al problema del lavoro con dosi sempre più massicce di neoliberismo
Perché nei parametri di Maastricht non ci sono tassi di crescita e di occupazione da rispettare? Perché è stata fatta la scelta di fissare criteri soltanto sul debito e sui deficit, i due parametri diventati ossessivi, accanto all’inflazione, alla stabilità del tasso di cambio e a quello, di cui nessuno parla più, della convergenza dei tassi di interesse (che se fosse rispettato avrebbe limitato i danni dello spread)? Possono sembrare domande ingenue, ma la moneta non è solo un mezzo per gli scambi, ma anche un potente strumento di politica economica, che influenza la crescita e l’occupazione. Eppure, nel ’92 – anno del Trattato di Maastricht – la disoccupazione era già un problema in Europa. Dagli anni ’70, dopo gli choc petroliferi del ’73 e del ’79, il vecchio continente soffre di questo problema.
Con la crisi del 2008, la disoccupazione è diventata un dramma, accentuato nei paesi della periferia: in sostanza, gli sforzi disumani imposti per la convergenza sul debito e sui deficit, peraltro vani, sono pagati da una progressiva divergenza sull’occupazione. Nel dicembre 2013 la disoccupazione nella zona euro era del 12% e del 10,8% nei 28 paesi della Ue. Ma ci sono forti differenze: si va da un tasso di disoccupazione quasi frizionale in Austria (4,9%) o in Germania (5,1%) ai baratri di Grecia (27,8%) o Spagna (25,8%). Ci sono 27 milioni di senza lavoro nella Ue, una popolazione pari all’area del Benelux. Un quarto dei giovani, 5,5 milioni sono disoccupati, una popolazione pari a quella della somma degli abitanti di Roma e di Berlino. Nel frattempo, anche la qualità del lavoro si è degradata un po’ dappertutto (Germania compresa): dal 2008 nella Ue il part-time è cresciuto del 6,4% e il tempo pieno diminuito del 4,6%. Al punto che persino un esponente dell’insensibile Commissione di Bruxelles, il commissario agli affari sociali Laszlo Andor ha affermato: «Purtroppo non è più vero che un posto di lavoro garantisca automaticamente un tenore di vita dignitoso, per cui dobbiamo concentrarsi non soltanto sull’esigenza di creare nuovi posti di lavoro bensì dedicare attenzione anche alla qualità dei lavori offerti».
Le autorità di Bruxelles vogliono vedere un barlume di speranza, poiché i dati complessivi sulla disoccupazione della fine 2013 sono in leggero miglioramento rispetto alla fine del 2012. A Bruxelles cercano di convincere che i severi programmi di austerità applicati ai paesi in crisi, come l’Irlanda e il Portogallo, stanno dando effetti positivi: in Irlanda la disoccupazione è diminuita nell’ultimo anno dal 14 al 12%, in Portogallo dal 17,3 al 15,4. Ma a che prezzo? L’Irlanda, che ha 4,5 milioni di abitanti, ha visto emigrare dal 2008 300mila persone, soprattutto giovani. Lo stesso fenomeno ha colpito il Portogallo. Per la Spagna, giudicata sulla “buona strada” da Bruxelles perché ha ridotto il costo del lavoro e recuperato produttività, come vogliono le regole dell’austerità, persino il commissario agli affari economici e monetari, Olli Rehn, ammette che «ci vorranno dieci perché ritrovi i livelli di occupazione che aveva prima dell’esplosione della bolla immobiliare». Per ragioni ideologiche, l’Europa rifiuta di ricorrere a stimoli alla crescita. Una posizione che, tutto dire, è arrivata persino ad inquietare il Fondo Monetario Internazionale. «Fino a che gli effetti sul lavoro non saranno invertiti – ha affermato di recente la direttrice dell’Fmi, Christine Lagarde – non possiamo dire che la crisi sia finita». Lagarde si «preoccupa» che un terzo dei giovani in Europa non riesca a trovare lavoro, percentuale che sale a più del 50% in paesi come la Spagna o la Grecia.
La disoccupazione giovanile preoccupa particolarmente, al punto che alcuni economisti già parlano di «generazione perduta», perché gli under 25 che non trovano lavoro rischiano di perdere le conoscenze acquisite con gli studi. Contro questo disastro, è derisorio il programma europeo messo in piedi l’anno scorso, con la promessa di stanziamento di 6 miliardi di euro. Venti paesi su 28 possono aderire alla «garanzia giovani» della Ue (destinata a regioni dove la disoccupazione under 25 è maggiore del 25% e che promette che nessun giovane deve essere lasciato più di 4 mesi senza proposte di formazione o occupazione). 18 su 20 hanno già presentato dei programmi, che comportano investimenti di 888 milioni per la Spagna, per esempio, 530 per l’Italia o 290 per la Francia. A circa cento giorni dal voto europeo, una vera e propria psicosi si sta diffondendo in alcuni paesi, in particolare in Gran Bretagna, sul “pericolo” rappresentato da una supposta invasione di lavoratori low cost venuti dall’est, da Bulgaria e Romania, ai quali dal 1˚ gennaio è aperto il mercato del lavoro dell’Unione europea (i due paesi, entrati nel 2007, hanno subito su questo fronte una moratoria di 7 anni). Il rischio populista è dietro l’angolo. Sotto la pressione dell’Ukip nazionalista, David Cameron ha limitato i diritti sociali dei nuovi europei che vengono a lavorare in Gran Bretagna. La Germania sta pensando di fare altrettanto. Il Parlamento europeo, il 16 gennaio scorso, ha protestato contro questi ostacoli alla libera circolazione, uno dei diritti fondamentali dei cittadini Ue. Ma le elezioni sono vicine e le minacce dei populisti entrano già preventivamente nella norma europea, sfigurando il volto della Ue: una conseguenza non trascurabile dell’alta disoccupazione e della crisi.
Leggi anche l’articolo: La svolta socialdemocratica, Hollande si arrende alla Ue