Le stesse misure imposte alla Grecia hanno indebolito la periferia tutta del sistema Euro in nome di un settore privato mitizzato che non ha saputo mantenere le promesse
Dall’inizio della crisi nel 2009 fino a questi tesi e intensi mesi del 2015, la Grecia ha visto peggiorare notevolmente la propria economia. Dal 2009 al 2014, il PIL pro capite è sceso da 21 a 16 mila euro, gli investimenti sono crollati, il tasso di disoccupazione è più che raddoppiato passando dal 9,6% al 25% (per non parlare di quello giovanile, intorno al 50%) e il rapporto debito PIL è esploso, passando dal 126% al 177% del PIL (fonte AMECO, Commissione Europea). Eppure, nonostante l’evidenza empirica sia sotto gli occhi di tutti, le politiche di austerità non sono state messe in discussione né dal Fondo Monetario Internazionale né da istituzioni e governi europei.
Il primo ha sì sottolineato nel suo rapporto del 2 luglio l’insostenibilità del debito greco, ma ha al tempo stesso rimarcato che ciò sia sostanzialmente da spiegarsi con un’insufficiente performance di crescita a sua volta dovuta dalla “mancata implementazione del programma di riforme strutturali”, dalle privatizzazioni alle liberalizzazioni alle misure per aumentare il gettito fiscale. Dall’altra parte, l’accordo imposto al governo Tsipras da parte dell’Eurogruppo per 86 miliardi di euro su tre anni– così come tutte le proposte che le due parti si sono palleggiate dal 20 febbraio a oggi – non fa che riproporre lo stesso approccio adottato negli ultimi cinque anni: surplus di bilancio, aumento del gettito fiscale, liberalizzazioni, riforma delle pensioni, privatizzazioni. Anzi, questo accordo rappresenta addirittura un inasprimento delle misure imposte alla Grecia, considerata la novità della disposizione secondo la quale un trust fund dovrà prendere in carico beni pubblici greci per 50 miliardi di euro al fine di privatizzarli e raccogliere risorse destinate al ripagamento del debito.
L’accordo recentemente siglato con i creditori e approvato senza non poche tensioni – specialmente all’interno di Syriza stesso – dal parlamento greco colpisce non solo per i contenuti ma anche per la forma. Impressiona innanzitutto la sproporzione tra le misure imposte alla Grecia e gli impegni assunti invece dall’Eurogruppo. A fronte di una lista di riforme dettagliate (si pensi all’aumento dell’IVA dal 13 al 23 percento per moltissime categorie di beni e servizi, anche per gli abitanti delle isole nonostante i costi di trasporto e i problemi logistici, o alla ristrutturazione del sistema pensionistico) e dalle scadenze ben definite e quasi immediate (nove giorni per una serie di riforme al codice civile sono davvero molto pochi), l’Eurogruppo si è limitato a prendere nota dei bisogni finanziari del piano di salvataggio e a fare promesse piuttosto vaghe.
Sullo stesso stile del Fondo Monetario, l’accordo specifica con chiarezza che l’inasprimento delle misure richieste sia reso necessario dal bisogno di ricostruire il rapporto di fiducia con la Grecia e di intervenire di fronte al deterioramento delle condizioni economiche e fiscali dell’ultimo anno, come se in precedenza gli indicatori macroeconomici, dal PIL all’occupazione e alla sostenibilità del debito, stessero mostrando segni di significativo miglioramento verso una crescita sostenuta e inclusiva. Le parole “Syriza” e “referendum” non compaiono mai, ma il rimprovero non potrebbe essere più esplicito e impietoso: la durezza dell’accordo è una conseguenza dell’inaffidabilità del governo greco, che troppi mesi ha fatto perdere per cercare di contrattare condizioni meno severe in termini di tagli alla spesa pubblica e aumenti del carico fiscale. Infine Eurogruppo, con una frase lapidaria (“The Euro Summit stresses that nominal haircuts on the debt cannot be undertaken.”), nega la possibilità di tagli nominali al debito. L’accordo quindi appare come una punizione più che come il risultato di una negoziazione tra stati o ancor meno come un programma di sostegno a un’economia in difficoltà per rimetterla sul sentiero della crescita.
Infine, un ulteriore aspetto da evidenziare riguarda il superamento dei principi di sovranità nazionale da parte dei creditori. In primo luogo, il risultato del referendum del 5 luglio e il suo messaggio di rifiuto di ulteriori misure di austerità da parte dei cittadini greci è stato completamente ignorato. In secondo luogo, l’accordo prevede che il governo greco concordi con le istituzioni europee i disegni di legge in materia economica prima di presentarli in parlamento e insiste sulla riforma delle pensioni nonostante ciò implichi di ignorare e aggirare una sentenza della corte costituzionale greca.
Per avere una serie di prestiti e aiuti che servano a ripagare il suo debito, la Grecia si trova dunque in una situazione di forte limitazione dello spazio della politica e di ulteriore mutilazione della sua sovranità sull’economia, costretta ad applicare misure a forte potenziale depressivo per il suo sistema socio-economico. Allargando il campo di analisi, si osserva che austerità e privatizzazione sono elementi chiave della struttura dell’eurozona sin dalla sua costituzione, benché la loro introduzione in misura accelerata e su larga scala si ascriva soprattutto agli anni successivi alla crisi finanziaria del 2007-2009.
Lo stesso scavalcamento della sovranità nazionale non è un elemento di novità, perché è esso stesso parte delle regole fondanti dell’eurozona, attraverso la creazione di una Banca Centrale Europea indipendente che di fatto fa da contraltare alla rinuncia della sovranità monetaria da parte degli stati membri. Non si tratta però di qualcosa calato dall’alto e imposto da poteri esterni. La limitazione dello spazio di manovra degli esecutivi e il conseguente ridimensionamento degli spazi di espressione della democrazia nazionale connaturati al progetto della moneta unica sono stati non solo accettati, ma addirittura caldeggiati da alcuni Stati che ora si trovano a subire i diktat europei.
L’Italia stessa, ad esempio, ha giocato un ruolo importante in questa dinamica. L’introduzione della moneta unica con una Banca Centrale indipendente e stringenti vincoli di bilancio (i parametri di Maastricht) si riallaccia all’idea di “vincolo esterno” che, nei piani di alcune figure guida dell’economia italiana dell’epoca (per esempio Guido Carli), avrebbe dovuto risolvere i molti problemi del Paese. I vincoli europei avrebbero infatti innalzato un argine rispetto a politici corrotti, a un sistema pubblico inefficiente e clientelare, ai gruppi di interesse che frenavano e impedivano il processo di modernizzazione dello Stato. Così facendo il ruolo economico dello stato sarebbe ridimensionato, lasciando il settore privato libero di ottemperare al suo ruolo salvifico perché “efficiente e portatore di crescita” per definizione. Ecco che per modernizzarsi i pareggi di bilancio (e quindi l’austerità, intesa quanto meno come riduzione della spesa pubblica), privatizzazioni e contenimento del settore pubblico diventano componenti fondamentali di questo progetto, anzi, ne rappresentano addirittura il cuore e il motore.
Il perseguimento di queste politiche non ha però prodotto nel Sud Europa alcun risultato apprezzabile. Né prima né dopo la crisi con l’inasprimento dei vincoli di bilancio e il rinnovato slancio verso misure di liberalizzazione (anche e soprattutto del mercato del lavoro) e privatizzazione. Dal Portogallo alla Spagna, dall’Italia alla Grecia, le economie del Sud Europa stanno registrando performance macroeconomiche decisamente deludenti, con disoccupazione a livelli record, bassa crescita del PIL e, soprattutto, forte perdita di competitività a livello internazionale: gli investimenti si sono significativamente ridotti, imprese di settori chiave vengono acquistate da economie concorrenti, la spesa per ricerca e sviluppo è crollata.
È quindi fondamentale fare alcune considerazioni sulle economie della periferia meridionale dell’eurozona, non solo alla luce della crisi greca. La prima osservazione riguarda la natura stessa del “vincolo esterno” cui gli stati membri si sono affidati: esso si fondava e si fonda su una caratterizzazione stereotipata della dicotomia pubblico-privato, in cui quest’ultimo – portatore di efficienza e virtù – una volta liberato dalla zavorra di un settore pubblico corrotto e inefficiente, avrebbe messo in moto un processo di robusto sviluppo economico. La storia ci ha mostrato che non è così, il settore privato non è ontologicamente onesto efficiente produttivo. Gli elementi di inefficienza esistono in ogni economia, sia nella sua componente pubblica sia in quella privata. Indebolire lo stato non è dunque la soluzione, tutt’altro. La soluzione piuttosto può essere un’altra: uno stato forte (come è per esempio in Germania) che abbia da una parte un ruolo di controllo per il sistema economico – altrimenti non è possibile contrapporsi a gruppi di potere corrotti nei settori pubblico e privato – e dall’altra un ruolo attivo nell’indirizzare e favorire l’innovazione, la ricerca e gli investimenti per dare impulso all’economia (si vedano i lavori di Mazzucato a riguardo).
La seconda osservazione è che proprio la crisi attuale, erroneamente definita “del debito sovrano”, ha smascherato la superficialità della visione di settore privato come portatore di efficienza e crescita. Ciò cui abbiamo assistito dalla creazione dell’euro sinora è una storia di indebitamento privato. La Spagna e l’Irlanda ne sono gli esempi più lampanti, ma anche la Grecia ha registrato dal 2002 al 2008 una vera e propria impennata dell’indebitamento del settore privato, una crescita di gran lunga superiore a quello del settore pubblico (rimasto costante a circa il 100% del PIL fino allo scoppio della crisi). Ciò porta a un’ultima riflessione. Come risulta da mere considerazioni contabili, a un deficit con l’estero – ed è il caso del Sud Europa – corrisponde un indebitamento del settore pubblico o del settore privato (o di entrambi). Il surplus di bilancia commerciale tedesco è una delle cause dell’indebitamento degli altri Paesi, perché la moneta unica ha favorito in termini di competitività chi era già forte (come la Germania), indebolendo ulteriormente la periferia. I trattati europei disciplinano questo scenario, lo stesso Fondo Monetario ha più volte messo in guardia l’Europa dalle conseguenze di un surplus commerciale di tale portata e accumulato in misura così prolungata negli anni. Le misure di austerità introdotte negli ultimi anni hanno contribuito a ridurre sostanzialmente il deficit commerciale dei PIIGS, purtroppo nel senso di una contrazione delle loro importazioni a seguito della riduzione della domanda interna, non certo per una loro apprezzabile performance in termini di export.
Ciò che si rende necessario, come addirittura suggerito recentemente anche dall’ex governatore della FED statunitense Bernanke, sarebbe quindi una serie di misure volte alla riduzione del surplus commerciale tedesco, sia per una redistribuzione delle risorse interna attraverso un’adeguata politica dei redditi con aumenti salariali per i lavoratori tedeschi, sia per la riperequazione degli squilibri produttivi dell’area Euro, precondizione fondamentale per qualunque riforma in senso europeo. L’accordo con la Grecia costringe il Paese in un circolo vizioso di dinamiche recessive che oltre a continuare a rendere il ripagamento del debito altamente improbabile non ne permettono la ripresa, ma i problemi dell’eurozona vanno ben oltre il clamore suscitato dalla testardaggine ellenica. Le stesse misure, sebbene in forme meno dure, hanno fortemente indebolito la periferia tutta del sistema Euro in nome di un settore privato mitizzato che non ha saputo mantenere le promesse che ancora adesso vengono decantante senza essere discusse.
La soluzione della crisi greca passa dunque per un ripensamento sia dell’intera struttura dell’eurozona, sia delle forze economiche e politiche che dovrebbero essere da traino per il suo sviluppo. Un ripensamento che deve però prima vincere le resistenze di Berlino.