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Uber, il lavoro, gli algoritmi, il nuovo capitalismo

Sharing economy, “economia della condivisione”, che in realtà poco o niente ha che fare con entrambe. La capofila Uber cresce ogni anno di dimensioni e valutazione di mercato ma i suoi risultati economici sono sempre peggiori: è l’emblema di un capitalismo predatorio e finanziarizzato che svaluta il lavoro.

La società e la sharing economy

Una recente sentenza londinese ha previsto che gli autisti di Uber devono essere considerati come lavoratori dipendenti, mentre qualche giorno dopo la procura di Milano ha deciso che 60.000 rider italiani devono parimenti godere dello stesso statuto. 

Tali fatti hanno posto di nuovo i riflettori sulla stessa Uber e sulla sharing economy, mostrandone ancora una volta i lati oscuri. Mentre sarebbero ora più urgenti degli interventi dei governi dei due paesi, che però temiamo ritarderanno molto, ricordiamo su quale sfondo si manifestano le decisioni sopra citate.

La Uber è stata fondata nel 2009. Faceva a quel tempo i suoi primi passi anche la sharing economy o “economia della condivisione” che, come è noto, non ha in realtà niente a che fare con la condivisione, ma neanche, come mostriamo più avanti, con l’economia.

Il nuovo tipo di attività, avviato con l’affitto a breve di vetture, si è poi esteso all’affitto di appartamenti, alla consegna a domicilio di pasti e di altri prodotti, al noleggio di biciclette e altri veicoli. Alla fine tutto ciò è diventato “una parte intrinseca della nostra società”, come ha scritto Pierre Bérastégui sul sito di Social Europe

Uber faceva lavorare nel 2019, 5 milioni di autisti in quasi 100 paesi,  ottenendo in media una quota di mercato del 65%. E fatturava 14,1 miliardi di dollari, ridottisi a 11,1 nel 2020 per la pandemia. Il suo maggiore smacco lo ha avuto in Cina, dove una società locale, Didi Chuxing, ha bloccato le sue velleità ed è diventata molto più grande della stessa Uber. Così quest’ultima svolge oggi 19 milioni di viaggi al giorno, contro i 30 milioni della prima. L’azienda statunitense ha intrapreso con un certo successo anche un processo di diversificazione, con la consegna pasti, le spedizioni e così via. 

Tre questioni

Lo sviluppo dell’azienda e, più in generale, del settore pongono l’attenzione su alcuni punti cruciali del quadro economico odierno

-Il degrado del lavoro

Nel tempo i processi di globalizzazione, gli avanzamenti tecnologici, gli interventi regressivi dei vari governi, da Schroeder a Macron a Renzi, le teorie neoliberiste che sono continuate a stare sullo sfondo, hanno contribuito a una trasformazione in profondo del mondo del lavoro. Così oggi abbiamo gli autisti di Uber e i fattorini di altre società che operano nel mondo senza alcun diritto, né contrattazione collettiva, né stabilità del posto, né contributi, né straordinari, né ferie pagate né malattia; intanto, gli addetti a Walmart e a McDonald ottengono paghe a malapena di sopravvivenza, mentre gli operai di molti paesi del Terzo Mondo lavorano in condizioni ancora più precarie, come hanno mostrato qualche anno fa i 1000 morti del Bangladesh. Arriviamo così alla pratica distruzione del lavoro attraverso il cosiddetto Mechanical Turk di Amazon.  

-Alla base un algoritmo

Ricordiamo che la sharing economy è stata resa possibile dallo sviluppo dei processi di digitalizzazione. E’ agli algoritmi, sviluppati dalle società digitali (al di là di una loro pretesa oggettività, essi sono nella sostanza delle opinioni interessate, incorporate da chi comanda il gioco in un codice numerico), che è stata data la responsabilità di prendere le decisioni che toccano il lavoro. 

Una componente essenziale della gestione algoritmica è costituita dalla sorveglianza digitale, una specie di metafora “panottica”, un sistema di reclusione che permette al singolo osservatore di controllare ogni prigioniero da un punto centrale (riguardo anche a tale tema Michel Foucault ha scritto a suo tempo un volume rimasto famoso, “Sorvegliare e punire”, richiamandosi ad un’idea originaria di Jeremy Bentham). I lavoratori sono, per altro verso, una specie di porcellini d’India del nuovo mondo del lavoro, come ci ricorda ancora Bérastégui, cavie su cui si studiano in concreto le nuove forme operative dell’organizzazione capitalistica.

Ricordiamo a tale proposito, una ordinanza del Tribunale di Bologna del dicembre 2020 che ha accertato la discriminatorietà del sistema algoritmico praticato da un’azienda del settore che penalizzava tutte le forme lecite di astensione dal lavoro – malattia, esigenze legate ad un figlio minore, partecipazione ad uno sciopero, ecc.- retrocedendo in tali casi i singoli lavoratori nelle fasce di prenotazione delle chiamate e limitando più in generale le loro future occasioni di lavoro.    

-Un capitalismo predatorio  

Ma la Uber va ricordata anche per un’altra caratteristica, il modello strategico di cui essa è portatrice. Mentre nel tempo l’azienda cresceva fortemente come dimensioni, i risultati economici sono stati sempre in grave perdita. Così il fatturato è passato dai 5,0 miliardi di dollari del 2016 ai 14,2 miliardi del 2019, quasi triplicando in tre anni e riducendosi nel 2020 solo per la pandemia. I risultati economici però non hanno seguito lo stesso andamento; si sono così registrati 3,2 miliardi di perdite nel 2016 e sino a 8,6 miliardi nel 2019 e a 6,8 miliardi nel 2020. Nessuno, né all’interno dell’azienda né all’esterno, è ancora riuscito a dimostrare la possibilità di arrivare un giorno a far quadrare i conti. Nonostante questo, il valore di mercato del gruppo è cresciuto nel tempo sino ai circa 90 miliardi di dollari dei primi mesi del 2021. Anche altre imprese del settore della sharing economy (si vedano ad esempio i dati della pur più piccola società europea Deliveroo) si ritrovano con perdite molto rilevanti e valutazioni di mercato da record. I soci fondatori di Uber si sono arricchiti con la crescita smisurata del valore delle azioni sul mercato. 

Uber e le altre aziende rientrano così in un quadro di capitalismo predatorio, centrato su ristrette oligarchie, che vede le sue punte avanzate nella finanziarizzazione e nelle sue derive speculative, nell’estrattivismo  – forma di accumulazione del capitale attraverso l’appropriazione dei beni naturali, la privatizzazione dei servizi e dei beni pubblici, la “gentrificazione” degli spazi urbani -, infine nelle rendite. 

A questo proposito si può ricordare ad esempio come una parte consistente del cosiddetto Terziario Avanzato, rappresentato ad esempio dalle società internazionali di certificazione di bilancio, da quelle di consulenza strategica o ancora di validazione tecnica delle attività più varie, rappresenti per molti versi un sistema di “taglie” obbligate per qualsiasi impresa o organizzazione di una certa dimensione.   

Non sembra dunque essere la ricerca del profitto e della redditività – lo stesso profitto visto come “premio per il rischio” su cui discettano i testi di microeconomia – il motivo di fondo che spinge queste organizzazioni, ma la lotta tra i vari clan per la conquista dei punti di transito del denaro; non che questi ultimi elementi fossero del tutto assenti un tempo, ma essi sembrano rivestire oggi una parte molto più rilevante che nel passato.